Un vecchio e citatissimo adagio recita così: "Se ti ricordi gli anni sessanta, significa che non c'eri". Assunto che vale anche, e forse a maggior ragione, per i settanta. Più ancora dei mitici Sixties, l'acme del sex&drug&rock'n'roll si è avuto nel decennio successivo. Probabilmente il più decadente ed edonistico del secolo scorso. Barry Miles è uno che c'era, sia nei sessanta che nei settanta, e nonostante abbia partecipato attivamente a qualunque momento di (chiamiamola così) ricreazione fisica, chimica e psichica offerto all'epoca, si ricorda molto bene di ciò che ha fatto e (soprattutto) in compagnia di chi. Miles, classe 1943, è stato il fondatore dell'Indica Gallery, libreria e galleria d'arte della Swingin' London (quella in cui John Lennon incontrò Yoko Ono, per capirci) nonché della leggendaria rivista underground "International Times" (It). Sorta di Zelig della contro-cultura, ha conosciuto tutti ed è stato ovunque meritasse stare in quegli anni ruggenti. Ha scritto a quattro mani la biografia di Paul McCartney, suo amico fraterno, e quelle di Frank Zappa, Allen Ginsberg, William Burroughs e Charles Bukowski. Da tempo si è specializzato nella storiografia alternativa, quella che racconta uno snodo fondamentale della modernità (il secondo dopoguerra) concentrandosi su musica rock, letteratura sotterranea, vita notturna, droghe, movimenti artistici off e jet set da bohémien (ossimoro solo in apparenza). Il capolavoro della sua produzione, in questo senso, è lo splendido London Calling (Edt, 2012), dettagliata mappatura della Londra contro-culturale dal 1945 alla fine degli anni sessanta. Il racconto I Settanta riprende proprio da lì, seppur con una prospettiva puramente autobiografica, laddove il testo precedente era invece un saggio. Nel 1970, Barry Miles è un intellettuale hippy ventisettenne che deve riprendersi da una sbornia psichedelica durata quasi sette anni, e coglie al volo l'opportunità di cambiare aria accettando l'offerta di Ginsberg di aiutarlo a registrare su nastro tutte le sue poesie, per un progetto discografico in realtà concretizzatosi solo vent'anni più tardi. Miles si lascia alle spalle Londra e finisce così a New York. Due giorni dopo l'arrivo, esplode una palazzina vicino a casa sua: era un covo dei Weathermen, organizzazione terroristica che stava preparando un attentato (episodio che ispirerà anni dopo a Philip Roth la trama di Pastorale Americana). Un "inizio col botto", come dice lo stesso autore, ma praticamente niente rispetto a quello che vedrà nella "comune di poeti" che Ginsberg ha messo su in campagna (con Gregory Corso e Peter Orlovsky in piena crisi d'astinenza) nella quale si fermerà per diversi mesi, o al Chelsea Hotel, classico stop-over per scoppiati nella Grande Mela di quel periodo. Tra questi ultimi spicca la figura tragicomica di Harry Smith, antropologo-musicologo-pittore-cineasta perso in un delirio privato fatto di droghe, omosessualità repressa e occultismo. Sono comunque gli amatissimi beat (o quel che ne restava) a occupare il centro del palcoscenico nelle memorie di Miles: imperdibile, ad esempio, il capitolo dedicato alle vicissitudini londinesi di Burroughs, al quale dà una mano nella sistemazione dell'archivio di lettere e manoscritti. La tecnica descrittiva è quella della "mosca sul muro": raramente vediamo l'autore interagire con i protagonisti dei suoi ricordi, spesso l'impressione è quella di leggere il report di un testimone inviato per conto nostro sul luogo (e sul tempo) dei fatti. Una tecnica impressionistica (vagamente affine a quella del Kerouac di On the Road) che funziona soprattutto nella prima metà del volume, forse anche per la maggior vicinanza di Miles ai personaggi citati finora. La stramba, complessa, a tratti inquietante umanità dei vari Ginsberg, Burroughs, Smith (ma anche di "comprimari" come Brion Gysin e Lawrence Ferlinghetti) emerge vivida dal taglio aneddotico di Miles. Successivamente, quando questi diventa collaboratore freelance del "New Musical Express" nella seconda metà del decennio, il racconto si fa più dispersivo, slegato e in definitiva noioso. Il Barry Miles giornalista musicale è uno che osserva più da lontano le vicende di cui narra rispetto al Barry Miles collaboratore/amico dei poeti beat, o forse semplicemente i musicisti punk rock (Clash, Patti Smith, New York Dolls) offrono più retorica e luoghi comuni che episodi interessanti da raccontare. Nonostante questa evidente perdita di ritmo sul finale, I Settanta rimane un testo imprescindibile per chiunque nutra anche soltanto un vago interesse per quegli anni e quei luoghi. Una volta tanto rivisitati senza ricorrere alla mitologia postuma. Per lo stesso motivo, chi è al contrario indifferente al fascino "maledetto" di quel periodo e non possiede uno schema di riferimento entro cui inquadrare le vicende narrate da Miles troverà poco per cui entusiasmarsi. Carlo Bordone
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