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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2012
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"Pensatore della crisi perché interno alla crisi". Così Galli definisce Schmitt. Una crisi che è definitiva e senza rimedio, tanto che l'atteggiamento tragico schmittiano pare un modo per mentire a se stesso e alla propria teoria che ha ammesso il nichilismo. E una volta ammesso il nulla – l'incistarsi del più temibile virus –, ogni ricerca di fondamento è destinata al fallimento. Questo il sospetto che si insinua nella mente del lettore dello Schmitt interpretato da Galli. Tutto nascerebbe dall'idea schmittiana di sovranità. L'eccezione che precede la norma, che la rende pensabile e applicabile, altro non è che il conflitto, l'inizio assoluto dell'esistenza umana e della necessità della forma politico-giuridica. La decisione sul conflitto, sulla sua messa in forma da quell'informe che originariamente è, costituisce la sovranità che sta alla base dell'ordine politico, nel senso di sua matrice e scaturigine. Il "sovrano" può decidere sull'eccezione nel senso che la riconosce in atto, e allora il suo è un intervento di difesa e di conservazione di un ordine minacciato. Può anche crearla, ed ecco allora che il sovrano è l'eversore rivoluzionario che distrugge un ordine vecchio per crearne uno nuovo. Sovrano vero è solo colui che decide efficacemente sull'eccezione. Solo però restando aperta questa ferita originaria e sorgiva dell'ordine, l'energia fondante e formante che è la politica può sussistere. In alternativa, subentra la neutralizzazione liberale del conflitto nella ricerca di un equilibrio o di un meccanismo omeostatico garantito da istituzioni giuridiche. Ma questa depoliticizzazione è un inganno, dice Schmitt nell'epoca delle guerre mondiali e della nazionalizzazione delle masse mediante partiti, sindacati e ideologie mobilitanti. Di un secolo rivoluzionario, marchiato a ferro e fuoco, il suo pensiero fu debitore. Al punto da restarne travolto.
Danilo Breschi
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