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Un quasi successo. L'autore sembra far capire al lettore fin dalle prime pagine di avere a disposizione le carte giuste per scrivere un gran libro e poi alla fine invece , letta l'ultima riga, rimane quella sensazione di "obiettivo mancato"
Sotto un cielo americano, in una piccola comunità agricola in cui tutti si conoscono, nasce e cresce un gruppo affiatato di amici, che tra queste pagine impariamo a conoscere e alle cui vicissitudini e dinamiche relazionali mi è venuto spontaneo appassionarmi. Butler narra una emozionante storia di amicizia, di legami forti che resistono alle distanze, al tempo che passa, ai successi dell'uno come ai fallimenti dell'altro, alle delusioni, agli errori, alle frustrazioni davanti alle proprie e alle altrui debolezze. Attraverso l'alternarsi delle voci dei cinque narratori - la fragilità e la dolcezza di Beth, la bontà e la lealtà di Henry, la tenerezza un po' matta di Ronny, l'irrequietezza di Lee, l'enigmaticità di Kip - mi sono sentita coinvolta dalle loro vicende, dai rapporti interpersonali che si creano, dalla bellezza di questo sentimento che è l'amicizia sincera, viscerale, impetuosa e tenera che li lega; a volte mi sono irritata, altre commossa. Mi è piaciuta l'ambientazione del piccolo paese, il contrasto con il mondo patinato e superficiale in cui vive il Lee cantante, la magia nostalgica creata dalla musica; ho trovato certi passaggi (ad es. quelli in cui i personaggi sembrano divenire un tutt'uno con la natura, perdendosi in essa) poetici.
Libro interessante, che racconta un'America diversa da quella del tradizionale sogno e delle grandi città, più rurale ed antica...la lettura è scorrevole anche se la storia va avanti senza infamia e senza lode...
Recensioni
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Canzoni d’amore dal Wisconsin
Credo che nessuno al di qua dell’oceano, dove viviamo noi, abbia bene idea di che cosa sia il Midwest americano. Credo che a nessuno, se non spinto da un interesse particolare, verrebbe mai in mente di andare a fare un viaggio nei campi di grano senza inizio né fine dell’Illinois, nelle praterie ipnotiche dell’Indiana, negli allevamenti di bovini giganti del Nebraska, nelle fabbriche arrugginite del Wisconsin, tra i silos sovraccarichi del Missouri. Nessuno di noi sa cosa sono le stagioni, laggiù: cos’è l’estate ferma e dal cielo insaponato, mossa solo dal ronzio di legioni di insetti appiccicosi; che nome hanno i colori dell’autunno, colori mai visti prima; che cos’è una piscina d’erba verde che si spinge fino all’infinito e invita i coyote a banchettarci su in primavera; che cosa è, infine, la neve, la neve. La neve. Lei, la neve, che dal giorno del Ringraziamento a quello di Pasqua oscura il sole e invade, conquista, annienta e insieme culla la sua terra per tempi che sembrano immobili ed eterni, affinché sia ancora più bella quando finalmente, in forma d’acqua, se ne andrà.
Ho avuto la fortuna di visitare il Midwest tra marzo e aprile, due mesi dell’anno in cui le stagioni sono tutte e nessuna e dalla tempesta di neve del primo giorno ai 25 gradi dell’ultimo la natura si è fatta assaggiare in tutte le sue forme. Il mio fu un viaggio preponderante, di quelli a cui non ero arrivata preparata, di quelli che ogni giorno stavamo a chiederci che fine aveva fatto il nostro immaginario, il bombardamento culturale a stelle e strisce di cui siamo imbevuti sin dalla nascita. Dov’erano le storie, dov’era il cinema, dove le copertine dei giornali? Dove il già visto? Nel Midwest americano, quella zona degli Stati Uniti dove a regnare – se ancora non vi fosse chiaro – è madre natura e al di sotto dei prepotenti grattacieli a specchio di Chicago, l’unica vera grande metropoli di un’area grande quanto mezza Europa, è tutto un impero di moderni feudi agricoli con cavallerie di vacche e fanterie di contadini ultra specializzati e armerie di trebbiatrici giganti e riserve segrete di fertilizzanti dal puzzo omicida, qui – dicevo – io la letteratura l’ho incontrata pochissimo.
Finché, a viaggio finito e attratti uno dall’altro come due vecchi amici, non ho incontrato questo.
Ambientato in una minuscola cittadina d’invenzione chiamata Little Wing, in Wisconsin, il romanzo d’esordio di Nickolas Butler è il racconto del Midwest declinato su due direttrici complementari: da un lato la natura, dall’altro l’amicizia. Al cambiare dell’una, cambia l’altra. E in mezzo, come quelle immense praterie o i cieli infiniti o lo spazio che percorre lo sguardo dalle tue pupille fino a incontrare l’orizzonte, in quella presenza così grande da riempire, c’è tantissima dolcezza. O meglio, come racconta uno dei protagonisti alla fine del libro, c’è la melancholia, quell’unico sentimento che unisce gioia e dolore e ti fa percepire il presente come se fosse già passato, il futuro come una visione e te stesso come un’unica, eterna ripetizione. Sempre uguale, eppure sempre così bella.
Non si deve essere per forza come me, personalità segnate dalla malinconia, attratte dai poteri religiosi della natura e devote al sentimento dell’amicizia molto più che a quello dell’amore, per apprezzare questo libro. Basta non aver lasciato i ricordi della scuola scomparire nella nebbia dell’adultità, avere degli amici per cui faresti di tutto e, adesso, guardar fuori dalla finestra e abbandonarsi all’autunno, la stagione che, affinché sia calda e bella, ci piace riempire di consolazione e di piccoli eventi non eclatanti, proprio come quel brevissimo istante in cui gli occhi si gonfiano un minimo, la gola si chiude quel poco e una nostalgica emozione viene a galla ma di grandi pianti o commozioni estreme non vi è traccia.
La storia è divisa in capitoli disomogenei, ognuno narrato dalla voce di uno dei cinque personaggi: quattro uomini (Henry, Lee, Kip e Ronny) e una donna (Beth), tutti cresciuti insieme nel Wisconsin e adesso approdati al decennio dei trenta. A unirli, la terra natia. A dividerli, la carriera, la crescita, a volte l’amore. A unirli, di nuovo, l’amicizia. A dividerli, il tradimento, la fama, la confusione. Un triangolo amoroso, che molto ricorda quello franzeniano di Libertà – lei al centro, una donna affascinante, indipendente, vivace, e loro due agli estremi, migliori amici: il musicista incasinato e il contadino solido – fa da perno alle vicende dei cinque protagonisti in quel frastagliarsi di livelli temporali che mette insieme l’imperfetto dei tempi della scuola al presente dei matrimoni di ognuno di loro (sono raccontati tutti e quattro!), il passato remoto dei momenti più importanti della loro vita (le gare di rodeo di Ronny, quella notte d’amore di dieci anni fa, il giorno in cui la band si sciolse) al futuro semplice dei progetti per il domani (un figlio, una fabbrica dismessa da trasformare in sala concerti, le vacche da mungere e la terra da preparare per l’inverno).. anche se a volte è il condizionale dei sogni a occhi aperti o delle ipotesi mai realizzate che racconta le pagine migliori.
Se, da un lato, il coinvolgimento autobiografico dell’autore è palpabile come può esserlo solo quello di chi decide di raccontare cos’ha di speciale la propria terra tanto da non far scappare lontano i suoi abitanti nonostante abbia ben poco da offrire a parte se stessa, se da un lato la sua partecipazione è rivelata nell’abbondanza e nella pienezza delle descrizioni del paesaggio, della pioggia che sulle foglie d’autunno crea il jazz, del coyote che ti ritrovi in soggiorno dopo aver lasciato la porta di casa aperta su una totalità orizzontale di bianco gelato da cui anche gli animali vogliono proteggersi, ecco, se da un lato Butler è in prima persona ognuna delle storie che racconta, dall’altro questo romanzo ospita una personalità d’eccezione che aggancia la realtà in maniera inequivocabile: il cantante Justin Vernon aka Bon Iver, compagno di scuola dell’autore nonché musicista molto amato non solo in America ma un po’ ovunque, nel libro impersonato da Lee, il musicista di Little Wing diventato così famoso in tutto il mondo da avere palate di soldi, migliaia di donne, una storia creativa tormentata ma un unico grande amore, quello per la sua terra, a cui sempre torna e dove, alla fine, deciderà di restare.
Io ho amato i Bon Iver quando qualcuno aveva smesso di amare me e oggi non li ascolto molto volentieri. In più Lee, oh Lee, il musicista tormentato con la camicia di flanella per cui io avrò sempre un debole stereotipicamente parlando, nella mia fantasia non poteva avere i capelli color paglia e l’occhio da bue bollito, ma, al contrario, doveva possedere chioma e barba neri corvino, le spalle larghe, la statura alta e solida, e un maglione di lana rosso mattone da usare contro il freddo. Ho immaginato che la colonna sonora di questo libro fosse firmata non da lui ma dai Band of Horses e secondo me funziona uguale. Ho immaginato che Lee fosse più simile a Matthew Fox che a Justin Vernon e secondo me funziona uguale. Ho immaginato che al posto dei cinque amici del Wisconsin ci fossero i miei e, cazzo, ha proprio funzionato uguale.
Provate anche voi a fare così, secondo me in quest’autunno che arriva non c’è miglior libro in cui potreste ritrovarvi.
Recensione di Marta Ciccolari Micaldi
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