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hardcover 230 9788804551294 Buono (Good) Libro usato proveniente da collezione privata,tracce d'uso sulla sovraccopertina.Le pagine risultano lievemente imbrunite dal tempo. All'interno in ottime condizioni..
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Debbo dire che il titolo del libro, pur utile come richiamo, non rende giustizia al suo effettivo contenuto. Infatti le vicende narrate con lodevole assenza di faziosità, sollevano il velo su un gran pezzo di storia italiana sconosciuta ai più, me compreso. la scrittura fluida e precisa di Oliva stimola prepotentemente il desiderio di approfondire la conoscenza delle questioni trattate e che non hanno trovato sufficiente spazio in questo libro.
Recensioni
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Autore del libro è Gianni Oliva che continua così felicemente il suo percorso di divulgazione ad alto livello dei risultati più innovativi della ricerca storica su temi fino a pochi anni fa pressoché sconosciuti. I crimini di guerra italiani 1940-43 è il sottotitolo dell'opera che prende le mosse proprio dal modo in cui tra il 1945 e il 1953 il governo italiano affrontò la questione dei criminali di guerra. Questione spinosa perché presentava due facce. Da un lato infatti l'Italia democratica – che cercava di accreditarsi non come paese sconfitto ma perlomeno come quasi-vincitore al fianco degli alleati – rivendicava il diritto di processare da sé i criminali nazisti che avevano a lungo infierito nella penisola. Dall'altro però esitava a estradare i criminali italiani chiesti da Jugoslavia Grecia e Albania perché la loro consegna avrebbe sottolineato proprio lo status di paese sconfitto dell'Italia e avrebbe impedito di concentrare – e limitare – al regime fascista le responsabilità degli aspetti più odiosi del nazionalismo e dell'imperialismo italiano. La soluzione al dilemma fu solo apparentemente paradossale: "Per non essere giudicata l'Italia rinunciò a giudicare" afferma Oliva che discute esplicitamente di "baratto delle colpe". I processi ai criminali tedeschi vennero limitati a pochi casi e parallelamente i criminali italiani non vennero consegnati ma giudicati in patria con un esito scontato in partenza: l'archiviazione.
Quello di Oliva è però assai più di un libro-denuncia. L'individuazione delle discutibili scelte compiute in nome della ragion di stato si accompagna infatti a una sintetica ma non per questo meno efficace panoramica sulle politiche repressive italiane nei Balcani che presenta documenti e situazioni ben note ai pochi studiosi della materia ma del tutto sconosciute al grande pubblico: ecco allora la celebre frase del generale Robotti che dà il titolo al libro o la non meno famigerata circolare 3C del generale Roatta – nella quale fra l'altro si leggeva "Non dente per dente ma testa per dente" – o ancora lo sconvolgente diario di don Pietro Brignoli Santa Messa per i miei fucilati. I criteri di lettura proposti dall'autore tuttavia vanno ben oltre l'emotività lo sdegno e la vergogna per le azioni criminali comandate ed eseguite da parte italiana (deportazioni di massa saccheggi fucilazione di ostaggi) e si accompagnano a una serie di valutazioni assai penetranti ed equilibrate sulle logiche che presiedettero a tali comportamenti.
È questo il caso della comparazione con le politiche di repressione tedesca che individua sia la somiglianza dei criteri tecnici sia la differenza dei presupposti ideologici e strategici: il terrore nazista era coerentemente finalizzato all'annichilimento dell'avversario e all'affermazione della superiorità tedesca mentre la violenza del regio esercito (e non solo delle camicie nere!) era in genere "manifestazione spesso scomposta di debolezza" reazione brutale alle iniziative partigiane cui non si riusciva a porre termine. Il confronto – sottolinea opportunamente Oliva – va dunque effettuato con altre situazioni come quelle in cui si trovarono eserciti non ideologicamente motivati allo sterminio della popolazione ma impegnati in combattimento contro movimenti di liberazione fortemente radicati nella società così come accadde a britannici francesi e americani in varie aree e particolarmente in Indocina dove il coinvolgimento dei civili fu comunque ampio e i livelli di violenza raggiunti assai elevati.
Ciò che risulta evidente da tale analisi è l'improponibilità dello stereotipo autoassolutorio del "buon italiano" vero mito unificante dell'Italia del dopoguerra impegnata a prendere le distanze dall'esperienza fascista senza fare fino in fondo i conti con il livello di coinvolgimento che il regime aveva saputo realizzare attorno ad alcuni aspetti della sua politica. Un'immagine quella del soldato italiano pietoso e un po' mammone che permetteva di espungere facilmente la "parentesi" del fascismo ribaltando in virtù le feroci critiche di Mussolini contro il buonismo della stirpe italica e che ha consentito per decenni di non vedere molti aspetti sgradevoli della nostra storia: i risvolti oscuri della dominazione coloniale la continuità all'interno di molti apparati dello stato fra l'Italia fascista e quella democratica ma anche alcune contraddizioni della stagione resistenziale.
Significativamente Gianni Oliva che ha studiato a lungo sia la storia delle forze armate che quella della Resistenza dedica il suo nuovo libro "Agli alpini della mia vallata conquistatori in Montenegro partigiani alle porte di Torino: alle sofferenze che hanno patito a quelle che hanno inflitto". È una sintesi felice.
Raoul Pupo
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