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recensione di Coletti, V., L'Indice 1995, n.11
Giampaolo Pansa ha evitato il pericolo consueto che il secondo romanzo (specie se molto ravvicinato al primo) sia un remake del precedente facendone, saggiamente, una continuazione. Sono infatti numerosi, evidenti, i tratti che legano "Ma l'amore no"(cfr."L'Indice", 1995, n. 1) a questo nuovo libro, dal luogo, a vari personaggi e fatti qui rievocati e ripetutamente citati. Emerge così un progetto, una specie di "Storia d'Italia" che il grande giornalista racconta con la partecipazione, l'identificazione e la nostalgia di chi narra, e sia pure per emblemi e specchi, la propria storia. E la nostalgia del passato privato è certamente un elemento che percorre le pagine di questo come (e forse più) dell'altro libro, in parallelo con la ricostruzione lucida e documentaria (per cui si veda l'accurata bibliografia iniziale) dei problemi terribili e delle contraddizioni di quell'età pubblica. La vicenda è quella di due giovani, Paolo e Anna, che si amano nella Casale del dopoguerra, nel '48 del Fronte popolare e di De Gasperi. La ragazza e figlia di un dirigente "coperto" del partito comunista e ai due giovani si svela per squarci drammatici la dura realtà politica, l'incubo umano che sta sotto il grande sogno popolare del socialismo. Un po' come nei grandi libri di Remarque, il lettore percepisce un'opposizione tra la forza, la bellezza della piccola storia privata, dei sentimenti diretti, immediati dell'amore, dell'amicizia (ancora una volta, in Pansa, rappresentati tutti dentro un microcosmo prevalentemente femminile) e l'invadenza, la prepotenza della storia grande, dell'ideologia, dei rapporti mediati e calcolati della politica. La frase fatta e insieme autentica che fa da titolo al libro ("Siamo stati così felici") ricorre, non a caso - dopo l'annuncio programmatico della premessa -, in due punti emblematicamente simili e diversi: è infatti la frase con cui, dice il narratore, il popolo comunista avrebbe ricordato un giorno un grande comizio di Togliatti (appena ristabilito dopo l'attentato) al Foro Italico e quella con cui Anna, alla fine, pone un sigillo al suo amore con Paolo e annuncia il romanzo che lo sta raccontando: "Un giorno potrai scrivere la nostra storia: la storia di due ragazzi che sono stati così felici". Le due parallele e tanto differenti felicità, le due contemporanee e tanto dissimili illusioni "giovanili" (l'amore, il comunismo) sono il motore di questo libro, testimonianza di un epoca e rievocazione (autobiografica e fantastica insieme) di una stagione della vita. Se dal fallimento delle fedi politiche si può salvare oggi quasi solo ciò che è stato toccato, benedetto dagli affetti umani, dalla generosità della privata dedizione di chi in esse ha creduto, il romanzo di Pansa non conclude però nell'avvitamento intimistico del rifiuto della politica e fa vedere come l'intensità delle passioni (pubbliche e private) sia un bene in sé, da non perdere, che resta oltre gli inganni delle ideologie e le devastazioni del tempo.
Nonostante qualche passaggio stilisticamente un po' troppo sbrigativo (non convincono del tutto, ad esempio, gli innesti dialettali, meno registrati che nel primo libro, credo anche per la concorrenza, accanto al piemontese, di un altro dialetto, il polesano di Anna), anche questo secondo romanzo di Pansa rivela un'autentica, pulita voglia di raccontare, insieme con la propria, la storia "popolare" del nostro paese. Alla fine, il lettore può legittimamente domandarsi fino a quale epoca del nostro recente passato Pansa, risalendo gli anni, potrà arrivare con i suoi romanzi; forse, azzardiamo, fino a quando riuscirà a rivisitarlo coniugando il disincanto dello storico col calore della nostalgia per ciò che in esso egli sente irrimediabilmente perduto.
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