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La tragedia di Fukushima ci pone ancora una volta di fronte al devastante potere distruttivo delle tecnologie nucleari. Anche quando l’intento è pacifico, e nonostante le possibili misure di sicurezza, l’impatto di una centrale nucleare in avaria sul territorio e sulle popolazioni è tale da pregiudicare la vita stessa per migliaia di anni. Ovviamente, gli enormi interessi economici in gioco hanno avuto il potere di tacitare i rischi e di evidenziare risultati spesso solo ipotetici. Scienziati interessati, politici assoldati e divulgatori a pagamento, hanno a lungo fornito – anche in Italia – l’immagine illusoria di un’energia pulita, sicura e a basso costo, alternativa al petrolio e al carbone. Ora la realtà della catastrofe fornisce un’altra dimostrazione di come la tecnologia non sia “neutrale” e una fonte energetica creata come arma di distruzione di massa non possa magicamente riciclarsi per usi pacifici senza perdere la sua pericolosità intrinseca. Anche la proverbiale saggezza giapponese rivela un inquietante risvolto: l’atavico istinto di sottomissione ai poteri costituiti e un pericoloso fatalismo. Il mescolarsi proficuo di tradizione e innovazione trova i suoi limiti nella mancanza di senso critico e nel conformismo. Eppure proprio un disastro nucleare (Hiroshima e Nagasaki) aveva segnato la data di inizio del Giappone contemporaneo. Fukushima segna nuovamente un punto di svolta. Una nuova consapevolezza del volto osceno del potere, per quanto tardiva, offre una speranza nell’ora del pericolo estremo.
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