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Le società dell'alto Medioevo. Europa e Mediterraneo, secoli V-VIII - Chris Wickham - copertina
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Le società dell'alto Medioevo. Europa e Mediterraneo, secoli V-VIII - Chris Wickham - copertina
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Descrizione


Mentre l'epoca imperiale romana è normalmente considerata un tutto unico, l'alto medioevo continua a essere descritto come un assemblaggio di storie regionali, vagamente corrispondenti alle aree delle moderne nazioni europee. La conseguenza è che la storia di questo periodo è una storia frammentaria, che ha prodotto solo rare sintesi del grande cambiamento socio-economico sviluppatosi nell'intero mondo post-imperiale. In questo suo monumentale lavoro l'autore integra testimonianze documentarie e archeologiche (comprese le più recenti scoperte), creando una nuova storia comparativa della fine della tarda antichità e del primo medioevo che - dalla Danimarca all'Egitto, e con la sola esclusione dei territori slavi - abbraccia il mondo mediterraneo e l'Europa continentale. Con l'obiettivo di comprendere e spiegare somiglianze e differenze tra le diverse aree geografiche, senza assumere come "tipico" lo sviluppo di una singola regione e come "eccezione" ogni divergenza dal modello, Chris Wickham si concentra sui temi socio-economici classici, la finanza dello stato, la ricchezza e l'identità delle aristocrazie, la gestione delle proprietà terriere, la società contadina, gli insediamenti rurali, le città e gli scambi commerciali.
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Dettagli

2009
19 marzo 2009
991 p., Rilegato
9788883343773

Voce della critica

Chris Wickham, che insegna a Oxford e ha dedicato all'Italia le sue più importanti ricerche sul campo, ha raggiunto da tempo, ancora in giovane età, i vertici della medievistica mondiale. Questa è l'opera della maturità e della definitiva consacrazione, non solo per la sua impressionante mole, ma anche perché mette interamente a frutto le due scelte metodologiche che hanno caratterizzato una vita di studi: l'incrocio delle fonti scritte con i dati archeologici e il ricorso sistematico alla comparazione. La massima resa di entrambe le operazioni è resa possibile grazie a un'attività di lettura di relazioni di scavo e di ricerche storiche aggiornate (dal Mediterraneo orientale al nord dell'Europa) che non ha eguali: l'ansia di aggiornamento di Wickham è tale da condurlo ad affermare, senza affettazione, che "parecchio è cambiato nella fisionomia della storia e dell'archeologia dell'alto medioevo" nei quattro anni intercorsi fra l'edizione originale inglese e la traduzione italiana. La sensazione di una costante "presa diretta" con le ricerche in corso accompagna di continuo il lettore. Non ci si aspetti, tuttavia, né una rassegna descrittiva di casi né una sequela di questioni aperte: perché lo storico è animato da una robusta volontà di sistemazione e di risposte. Continuità o frattura fra mondo tardoantico e alto medioevo? Non è questo tradizionale interrogativo ad animare l'autore, dichiarato avversario delle teorie fondate sulle catastrofi generative e assertore delle continuità frazionate, per segmenti. Il vero oggetto del libro sono i modi di trasformazione di diversi ambiti regionali, più o meno intensamente condizionati dal loro inquadrante passato romano e caratterizzati da diversi percorsi verso la localizzazione o verso un nuovo ruolo entro sistemi più ampi. "Le società" al plurale del titolo non sono affatto un artificio retorico, sono l'ossatura stessa dell'opera. Le regioni a cui è stato sistematicamente applicato il progetto comparativo sono dieci: Danimarca, Irlanda, Inghilterra e Galles, Gallia-Francia, Spagna, Italia, Nord Africa, il centro della dominazione bizantina (Egeo e Anatolia occidentale), Siria e Palestina, Egitto. Tutte sono state attraversate dall'analisi condotta in quattro parti: Stati, Strutture di potere aristocratiche (comprensive della gestione della terra e dei "collassi politici"), Contadini (chiavi d'ingresso sul tema dei villaggi e delle forme d'insediamento), Reti (con le risposte sulle città e sui sistemi di scambio).
Gli apparati definibili come statali (e Wickham critica il teleologismo di chi "aspetta", in un certo senso, stati di tipo moderno) possono fondarsi sul prelievo fiscale o sulle basi fondiarie del potere, sulla centralità dei regni o sulla prevalenza delle aristocrazie. La rassegna di casi serve anche a smentire luoghi comuni, come l'idea secondo cui sarebbe "destinato al fallimento (…) un sistema fiscale i cui principali contribuenti potenziali possano evitare di pagare le tasse". La definizione di aristocrazia è molto simile a quella di Marc Bloch: "Un'élite politica (…) che poteva esercitare una qualche forma di potere semplicemente per via della propria identità". È di grande interesse notare che le sintesi di storia mediterranea-europea, invece di dar peso al complessivo impoverimento delle aristocrazie, abbiano invece generalizzato l'eccezione contraria, riscontrabile solo in Gallia e nell'area siro-palestinese. Un carattere davvero comune alle diverse regioni (la militarizzazione dell'identità aristocratica) è giudicato dall'autore importante, ma non "il più significativo". Terminologicamente e concettualmente l'autore fa ricorso a una nozione tripartita di feudalesimo: come modo di produzione; come dominazione basata più sulla terra che sulle tasse; come specifico sistema di relazioni militari feudo-vassallatiche. L'uso plurimo, una volta esplicitato, può anche non infastidire chi (come me) lo accetta sulla base delle fonti solo nella terza accezione. Certo talora l'aggettivo "feudale" crea confusione: come a p. 406 dove, con il riferimento a "diritti di proprietà (feudali)", non si capisce se le terre siano tenute in proprietà o in beneficio. Ma occorre ammettere che per Wickham la distinzione fra proprietà e possesso non è decisiva per definire i sistemi politico-economici.
Torniamo agli aspetti di pieno consenso. La gestione della terra è occasione per ricordare che nell'alto medioevo sono rari "schiavi di piantagione" (riconducibili alla schiavitù antica) e famiglie servili con una quotidianità più paragonabile a quella dei coloni liberi: questi ultimi esistono, mantengono la loro libertà giuridica (con buona pace di chi continua a credere nei "servi della gleba") e si distinguono socialmente a seconda che abbiano anche terre in proprietà o coltivino soltanto terre altrui. La curtis e l'economia curtense come "sistema" hanno differenziazioni enormi, sia di cronologia sia di struttura, nelle diverse zone d'Europa (particolarmente frammentate le aziende bipartite italiane). Ma, quando si incrociano fra loro i discorsi sui contadini-coltivatori e i contadini-sudditi, un dato sembra incontrovertibile. La condizione personale delle famiglie dei rustici è fortemente condizionata dalla composizione della maggioranza degli abitanti di un villaggio: più legate a uno status specifico difendibile quando su un villaggio convergono diversi padroni, piccoli proprietari o addirittura appendicia di diverse curtes; con maggiore tendenza all'omogeneità di obblighi e prestazioni quando la struttura sociale del villaggio è più compatta. Può addirittura avvenire (è citato un bel caso veronese) che alcuni contadini, i quali per via giudiziaria dimostrano con successo di non essere servi, si vedano sottratta la proprietà delle terre (perché le loro prestazioni sono a quel punto interpretate come pagamento di terra in affitto).
La politicità delle comunità di villaggio (società definite dall'autore "tribali"), con la capacità di promuovere su un piano più complessivo il potere dei loro capi, si riscontra quasi esclusivamente nella Bretagna orientale; altrove sono realtà insediative, con scarsa funzione sociale e quasi nullo rilievo politico. Vera protagonista è la famiglia contadina nucleare, non allargata, che instaura reti di relazione (e spesso di scambi economici) senza farsi condizionare dai limiti e dai caratteri dell'insediamento, e che non pratica la primogenitura nelle eredità. Per le città i secoli in esame sono di crisi: l'archeologia conferma, in questo caso, una vulgata tradizionale, onestamente riconosciuta da un autore che corregge molto di ciò che già si sa, ma non vuole "rovesciare" a ogni costo le conoscenze pregresse. In Italia gli antichi insediamenti urbani divengono "città a isole", con un certo ridimensionamento della capacità polarizzante del "foro" tradizionale; maggiore continuità si registra nel Mediterraneo orientale, ma anche qui con un processo di "demonumentalizzazione".
Di grande impegno teorico è il paragrafo sui Sistemi di scambio, dallo "scambio non commerciale" (finalizzato ai legami sociali, quello di Marcel Mauss e Marshall Sahlins) allo scambio di "redistribuzione" (operata dal detentore del potere, quello di Karl Polanyi). È una lettura avvincente, che induce a ragionare con prove solide su tante pigrizie della nostra cultura. I beni che sono di lusso in un luogo non lo sono in un altro: la ceramica Sigillata Rossa Africana, rara e costosa in Britannia e Irlanda, è comune in Africa settentrionale e in Italia. Lo scambio locale su piccola scala è molto più importante, nel definire tendenze economiche, del commercio a grande distanza (ma soprattutto molto interessante è valutare la presenza/assenza di scambio all'ingrosso di beni non di lusso, come cibi o prodotti artigianali). La microregionalità del mondo post-romano domina nel bilancio conclusivo, che è magistrale nel preservare le differenze e, al tempo stesso, nell'individuare tendenze.
Giuseppe Sergi

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