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Anno edizione: 2019
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Scritto nel 1937, quando ormai tutto annunciava la catastrofe finale, all'ombra della perdita e del dolore, il racconto-epitaffio è smagliante, luminoso, sembra irradiare vitalità e tepore.
«Ha il sapore dello zucchero, perché all'autrice dolce è stato scriverlo: si chiude con rimpianto e si legge con tenerezza» - Melania Mazzucco, Robinson
«La fine e l'impossibilità, che caratterizzano la vita di Cvetaeva e sono solitamente espresse con inflessibile lucidità, vengono smorzate in una malinconica dolcezza che coniuga il sublime con il quotidiano» - Barbara Castiglioni, Il Venerdì
Marina Cvetaeva conobbe l'attrice Sof'ja (Sonečka) Gollidej – il suo «più grande amore femminile» – alle soglie del 1919, il «più nero, pestilenziale, mortifero» degli anni postrivoluzionari, quando in una Mosca misera e affamata «si affratellò a una banda di commedianti»: gli attori allievi del Secondo Studio presso il Teatro d'Arte. Ventidue anni – ma con l'aspetto di una ragazza-bambina –, elfo, Mignon, Infanta, Sonečka, che aveva allora grande successo nelle Notti bianche di Dostoevskij, era capricciosa, sentimentale, indisciplinata, instancabile raccontatrice di sciocchezze, sogni, deliziose storielle, con un debole per le «paroline da collegiale», i diminutivi, le romanze strappalacrime da cui sembrava lei stessa uscita – l'opposto dell'indole «virile, retta, di acciaio» di Marina. Fra le due donne nacque una «amicizia frenetica, reciproca deificazione di anime», destinata a concludersi quando, dopo neppure un anno, Sonečka abbandonò Mosca per seguire il suo «destino di donna». Scritto nel 1937, quando ormai tutto annunciava la catastrofe finale (la Cvetaeva era stata definitivamente proscritta dalla colonia émigrée parigina e il marito, smascherato come agente sovietico, sarebbe fuggito di lì a poco nella Russia comunista, dove aveva già fatto ritorno la figlia Alja, dalla quale era arrivata la notizia della morte di Sonečka), all'ombra della perdita e del dolore, il racconto-epitaffio è smagliante, luminoso, sembra irradiare vitalità e tepore. Prodigi di una ancora viva affezione, ma anche di una scrittura – sempre sottesa dal pensiero poetico – che coniuga arditamente il sublime con la lingua della vita quotidiana, della strada.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Uno degli scritti in prosa, un lungo racconto, tra i più intensi di Marina Cvetaeva e più rivelatori della sua personalità. Amicizia, complicità e sopravvivenza in un'epoca infausta.
Cvetaeva è stata una scoperta di quest'anno. Sonecka è un flusso doloroso di pensieri di addio e commiato a una donna che la scrittrice amò anni prima. Questo libro è un'immersione nel sentire di Cvetaeva, che qualche anno dopo si suicidò, e con tutto ciò che questo comporta; finiamo travolti dalle sue emozioni, dai pensieri interrotti dal suo caratteristico trattino, da uno spaccato culturale a noi lontano. Bellissimo.
Nei terribili anni di carestia dopo la rivoluzione d’ottobre la poetessa Marina Cvetaeva, che con la figlia pativa la fame, racconta che quando visitava amici o conoscenti che stavano meglio, prendeva o rubava loro il pane perché considerava questo un atto di libertà dal momento in cui lei sarebbe stata pronta a donare o a lasciarsi derubare in caso contrario. Questo libro è di un fortissimo impatto emotivamente, grazie ad esso riusciamo a capire che cosa era veramente vivere nei tempi dopo la rivoluzione d'ottobre. Consiglio a tutti di leggerlo e tenere i fazzoletti pronti. Buona lettura.
Recensioni
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«Marina, per me tutto è un diminutivo, tutti sono al diminutivo – amiche, cose, gatti, e persino uomini – le Kat’enki, i gattini, gli Juro?ka, i Pavlik, e ora lui – Volode?ka… Come se non osassi pronunciare niente di grande. Soltanto voi per me siete – Marina, qualcosa di immenso, così lungo… Oh, Marina! Voi siete – il mio accrescitivo».
Quando riceve la notizia della morte di Sof’ja Gollidej, Marina Cvetaeava si trova a Parigi. Sono passati ormai vent’anni da quando Sone?ka (soprannome di Sof’ja) era entrata nella vita della grande poetessa russa. Ma è come se fosse ancora – oggi.
1919, Mosca, comunismo di guerra. Marina Cvetaeva deve prendersi cura di due figlie ma non c’è cibo, acqua, luce. Va a teatro per distrarsi dal mondo, scrive. E all’improvviso arriva Sone?ka, una ragazza di vetro «nera nera» e con uno spasmodico desiderio di amare che decide di riversare tutto nella sua Marina.
Diventata famosa grazie alla sua sublime interpretazione del ruolo di Nasten’ka nelle Notti bianche di Dostoevskij, Sof’ja è una ragazza ribelle, capricciosa come una bambina, ma anche molto pratica. È lei infatti a prendersi cura delle piccole, a portare loro qualcosa da mangiare; il quotidiano sembra essere terribilmente estraneo alla Cvetaeva, anche nei suoi ricordi. Avanza come in una fitta nebbia, rischiarata solo dalla sua Sone?ka e la vita sembra quasi passare in secondo piano rispetto alla realizzazione spirituale che le due donne trovano l’una nell’altra.
La separazione arriva all’improvviso. Marina ha due figlie, sa cosa vuol dire adempiere ad un crudele «destino di donna» ed è arrivato il momento anche per Sof’ja Gollidej. Lo sa, e la lascia andare: dopotutto non può esistere una Sone?ka che non sia per Marina e di Marina. Ed è proprio questa la Sone?ka che la Cvetaeva salva, in eterno: con una prosa che rasenta la poesia, Marina racconta l’amore, strappandolo – per sempre – dalla morte.
Recensione di Lisa Ceccarelli
A cura del Master Professioni e prodotti dell’editoria - Collegio Universitario "Santa Caterina da Siena” in collaborazione con l’Università di Pavia
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