L'ultimo libro di Mirella Serri si inserisce a pieno titolo nell'ormai ricco filone di studi dedicati alla "guerra fredda culturale", che ha conosciuto nuovo vigore, anche in Italia, dopo la traduzione nel 2007 (Fazi; l'edizione originale è del 1999) dell'omonimo volume della studiosa Frances Stonor Saunders. Fondato su un ampio scavo dei fondi archivistici del ministero degli Interni conservati presso l'Archivio centrale dello Stato, il volume abbraccia un ampio arco temporale (dagli anni quaranta alla fine dei settanta), senza soluzione di continuità, mentre invece sarebbe stato forse opportuno distinguere da periodo a periodo. Ad esempio, alcuni dei protagonisti "sessantottini" potrebbero, a pieno titolo, comparire in una nuova edizione dei Redenti, il fortunato e precedente titolo dell'autrice, dedicato però ai "pentiti" delle varie utopie rivoluzionarie (esilaranti, a questo proposito, le pagine in cui compare Paolo Liguori, futuro direttore di testate Mediaset). Il titolo di questo volume, Sorvegliati speciali, risulta infatti, in buona sostanza, un pretesto rispetto al suo vero nucleo tematico: una severa reprimenda verso l'ammirazione acritica di gran parte del mondo intellettuale italiano (comunista, ma non solo) nei confronti della sicuramente antidemocratica-illiberale Unione Sovietica e del modello politico del "socialismo reale", chiudendo gli occhi di fronte ai suoi errori (e orrori). Certo, compaiono anche gli informatori e gli "spioni", con le loro informative talora grottesche (specialmente quando tentano di dedicarsi alla critica d'arte), raramente perspicaci, spesso ricalcate, soprattutto nello stile, sulle analoghe veline del passato regime fascista (peraltro, molti dirigenti dell'Ovra, a partire da Guido Leto, passarono tranquillamente nella file della polizia repubblicana). Un campionario che ben si presta alla brillante prosa da spy-story che sovente aleggia in queste pagine. L'attenzione, insistente e non di rado occhiuta, dedicata dagli apparati di polizia a scrittori, professori, attori sospettati, più o meno a ragione, di comunismo o di essere dei "compagni di strada", si spiega certamente con il clima della guerra fredda e con il tentativo di instaurare una sorta di confusissimo maccartismo temperato dal ruolo storico delle sinistre nel nostro paese. D'altronde, è una prova a contrariis del sostanziale successo dello sforzo "egemonico" compiuto da Togliatti (nelle parole di Giorgio Amendola "la capacità di guidare gli alleati e di intimidire gli avversari senza ricorrere al bastone, ma con la forza delle idee e le armi della politica"), con la creazione, nel dopoguerra, del "partito nuovo". A questo proposito, colgo l'occasione per suggerire (soprattutto ai nuovi esegeti, più o meno provveduti, di Gramsci) la lettura di un articolo di Massimo Mila a proposito delle Lettere dal carcere (Il diavolo a occhio nudo, "La nuova democrazia", settimanale di Giustizia e Libertà, 7 maggio 1947, ora in Scritti civili, a cura di Alberto Cavaglion, il Saggiatore, 2011), sperando di non incorrere nell'accusa di "gramsciazionismo" (e se dovesse essere, grati per l'onore): "Sono 250 pagine, fitte di frequenti riferimenti a problemi culturali, storici, politici, secondo i vari suggerimenti delle letture di un decennio di galera: ebbene, non vi si incontra una, non una, affermazione d'ordine generale, né una posizione di princìpi in cui un azionista, di formazione idealistico-crociana, non solo non concordi, ma non provi il piacere di trovare le proprie opinioni e convinzioni espresse in una forma intellettuale lucida ed efficace (
) Sì, ma l'obbedienza a Mosca, l'asservimento a una potenza straniera
Ah, perdio! Se leggessero le lettere di Gramsci, i nazionalisti nostrani, finalmente imparerebbero una buona volta ad essere italiani". È questo, forse, il principale problema storiografico sollevato dalla lettura del libro: come mai intellettuali raffinati come Ranuccio Bianchi Bandinelli e Luchino Visconti, docenti per nulla marxisti come Francesco Flora e Luigi Russo, attori celebri come Vittorio Gassman e Eduardo De Filippo sostennero non solo le parole d'ordine del Pci, ma diventarono anche autorevoli testimonial delle illusorie promesse del "paradiso sovietico"? La spiegazione va evidentemente oltre le notevoli e straordinariamente efficaci capacità di propaganda dell'apparato comunista o al sostanziale disinteresse della intellettualmente incolta Democrazia cristiana nei confronti del mondo della cultura (il "culturame" di scelbiana memoria) e dovrebbe, perlomeno, attingere agli studi di storia culturale e di antropologia degli autori di lettere e di dottrina politica cui figure come Aron, Hollander, Johnson, Koestler diedero in passato celebri contributi: insomma, non è lavoro per questurini. Giovanni Scirocco
Leggi di più
Leggi di meno