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«Dedico questo romanzo a tutti quelli che hanno il cuore legato alla terra dell’Israa e del Mi’raj»
- Yahya Ibrahim Sinwar, Carcere di Beersheba, 2004Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Capitolo 1 La Naksa del 1967 L'inverno del 1967 era pesante, si rifiutava di andarsene e lottava con la primavera che cercava di fare capolino con il suo sole caldo e luminoso. L'inverno si difendeva con le nuvole che si raggruppavano in cielo, e poi la pioggia si riversava pesantemente, allagando le modeste strade del campo profughi di Al-Shati, a Gaza City. I torrenti attraver-savano i vicoli del campo, invadendo le case e allagando le piccole stanze che fungevano da taverne. Più volte le inondazioni invernali si erano riversate nel cor-tile della nostra piccola casa, raggiungendo anche l'interno. In questa casa la mia famiglia viveva dal 1948, anno in cui era emigrata dalla città di Falluja, nei Territori Occupati. Ogni volta la paura attanagliava me e i miei fratelli e sorelle, che erano tutti più grandi di me. Mio padre e mia madre si affrettavano a sollevarci da terra e mia madre alzava frettolosamente le lenzuola prima che l'acqua inarrestabile le inzuppasse. Essendo il più giovane, mi aggrappavo al collo di mia madre insieme alla mia sorellina, che di solito era in braccio a lei in queste situazioni. Spesso mi svegliavo di notte al tocco delle mani di mia ma-dre che mi spostava per appoggiare sul letto una pentola di alluminio o un grande piatto di argilla per raccogliere le gocce d'acqua che filtravano dalle fessure delle tegole del tetto che cercava di proteggere quella piccola stanza. Una pentola qui, un piatto di argilla là e un terzo contenitore da qualche altra parte. Cercavo di riaddormentarmi, a volte ci riuscivo, per essere poi risvegliato dal suono delle gocce d'acqua che colpivano ritmicamente l'acqua accumulata nei contenitori. Quando erano pieni o quasi, l'acqua schizzava ad ogni goccia. Mia madre allora si alzava per sostituire il contenitore pieno con uno vuoto e usciva per svuotarlo.
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