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Storia d'Italia. Annali. Vol. 13: L'Alimentazione. - copertina
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Storia d'Italia. Annali. Vol. 13: L'Alimentazione. - copertina

Descrizione


L'attenzione della storiografia si è soffermata di rado su quel complesso di fatti che vanno sotto il nome di "cultura materiale". Il tredicesimo volume degli "Annali" giunge a colmare questa lacuna attraverso un'indagine capillare su uno degli aspetti più importanti del costume contemporaneo. A una tradizione alimentare ottocentesca, basata quasi esclusivamente sulla cultura agraria e sui bisogni di puro sostentamento, vediamo subentrare una articolazione dei consumi più "moderna". Ma il processo è lentissimo; il cibo, quasi liberato da connotazioni di necessità, diventa sempre più "simbolico". La dicotomia tra il peso di una tradizione agricola imponente e la voglia di modernizzare a tutti i costi rimane irrisolta.
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Dettagli

1998
1 gennaio 1996
1052 p.
9788806147860

Voce della critica


recensione di Monteleone, R., L'Indice 1998, n. 7

Raccontano gli storici che, in tempi lontani, correva di bocca in bocca tra la gente questa raggricciante ricetta: si prenda un pugno o due di terra finissima o, se si preferisce, di quella sabbia bianca e sottile che imbellisce molte nostre sponde marine; si raccolga a piacimento, lungo pascoli e prati, dell'erba trifogliata o tremolina; s'impasti con acqua e un po' di farina (di quella nera, beninteso, di gran saraceno); si metta il tutto a cuocere sotto cenere calda o, se possibile, dentro bocca rovente di forno.
Dicono che, osservando scrupolosamente questi precetti, si ottenga alla fin fine qualcosa di molto simile a quel "pane di carestia" che fu molto in voga nei secoli scorsi. Se ne nutrirono, infatti, milioni di uomini, nella dannazione dei tempi di guerra, fame e pestilenza. Lo stomaco si riempiva, ma la pelle sulla pancia si tendeva come quella d'un tambur maggiore, e il pallore s'incollava sul viso come segno premonitore di morte presta e sicura.
Da allora a oggi le abitudini alimentari hanno subìto un mutamento lento, millenario, ma profondo, scandito sui ritmi delle grandi svolte della civilizzazione. Così dice Vera Zamagni, nel suo contributo a questo libro collettaneo dove, una volta tanto, non si parla dell'"Italia che lavora", con la consueta birbonesca voce dei retori, ma dell'"Italia che mangia", otto e novecentesca, che è cosa che più incuriosisce, allegra o soprassale il lettore, non obbligato a possederne scienza minuta.
Infatti, si apprende, per convinzione comune, che nella pratica dei regimi dietetici è impresso il marchio dell'appartenenza a un modello di civiltà piuttosto che a un altro; e che, da sempre, la scelta del consumo del cibo ha obbedito a precise differenze sociali e ambientali. Insomma, tra il pane seccherello lisciato sull'aringa e il babà pregno di rum, o Malaga, o Madera, sceso dalle lande polacche fin dentro agli spiriti esilaranti della pasticceria napoletana, ci corre un distacco astrale di usi e costumi, di ricchezze e poteri.
Fino a oggi l'identità alimentare ha continuato a definirsi sui fattori socioambientali, sia pur in forme diverse di tempo in tempo. Molti saggi del volume si soffermano su questo aspetto fondamentale della storia dell'alimentazione. Si parla di "dualismo alimentare" tra il Nord e il Sud dell'Italia, si parla dell'Italia come di "paese gastronomicamente disunito", e Alberto Capatti, citando Piovene, distingue, nelle usanze alimentari, la sensualità e l'edonismo del Nord, il rusticano tradizionalismo del Centro, lo scialo di cibi dolcigni e bevande giulebbose del Sud. In passato il divario era principalmente quantitativo: molto da mangiare ai ricchi, meno ai ceti medi, poco ai "villici", niente ai poveracci che non fosse per ruberia o per carità.
In Italia, come in generale nel Sud mediterraneo, la specificità dietetica si esprime all'insegna del grano, della vite, dell'ulivo e dei frutti ubertosi dei climi placidi e soleggiati: questa, dicono tutti, è parte del mondo dove si beve vino e si frigge nell'olio. Certo, è noto che nei giorni di festa grande anche la gente del popolo ha sempre provato gusto a perdere i sentimenti in abbuffate onnivore, specie nelle campagne. Ma poi, finita la festa, si tornava ai regimi consueti di dieta vegetariana, a dentecchiare cereali inferiori e verdure selvatiche, mentre i potenti, nobili ed ecclesiastici, s'imbuzzavano di pane bianco, carni fresche, selvaggina e ortaggi raffinati.
Le cose sono cominciate a cambiare da quando la qualità pregiata del cibo è assurta a segno di potere e di ricchezza, e il fattore quantitativo è diventato socialmente meno discriminate. Anzi, è successo che ai subalterni si è lasciato il miraggio dell'abbondanza bruta, quella figurata nel Paese di Cuccagna, dove ci sono montagne di formaggio e pentoloni di gnocchi alti come casamenti e fiumi di vino gorgogliante senza requie dalle fontane .
Ma veniamo all'oggi, che è il tempo su cui i saggi di questo bel libro concentrano le informazioni più gustose e illuminanti. Oggi, nella roccaforte opulenta del mondo, in cui anche il nostro paese è riuscito a infiltrarsi, il consumismo di massa, compreso quello alimentare, si è talmente generalizzato da suggerire a un illustre maestro di scienze sociali come David Riesman l'idea che la società sia passata dall'era dei "capitani d'industria" a quella dei "capitani di consumo", ovvero dall'"eroe-produttore" all'"eroe-consumatore".
Dalle pagine scritte da numerosi collaboratori di questo volume, che sarebbe arduo e affastellante citare tutti nominalmente, emerge con chiarezza che la nostra alimentazione si è uniformata all'interesse dei grandi produttori e i cibi hanno perduto il loro significato rituale e sacrale. I canoni estetici propagandati dai mass-media stanno sopraffacendo i piaceri della tavola, imponendo rinunce da trappisti in nome di un intramontabile, filiforme giovanilismo. Per essere magri, atletici, efficienti, non esitiamo a riservare ai bifolchi il gusto della grufolata incontinente che ingrassa e deforma: bando a ogni stravizio, pur di conservare un'aristocratica macilenza, al cui culmine attende, uncinante e arcigna, l'anoressia.
Il trionfo di questo modello ha messo fine all'apologia della grassezza, come segno di salute e agiatezza. Si diceva una volta che il ricco mangia, s'inlarda e vive con ottimismo; il povero, invece, se ne va ramingo, scarno e avvizzito, e un proverbio beffardo dice di lui che, se mangia una gallina, vuol dire che o è ammalato lui, è o malata la gallina. Oggi, le due immagini sono del tutto interscambiate, sostiene a giusta ragione Paolo Sorcinelli. La grassezza appartiene al tipo volgare, ignaro dei canoni della corretta alimentazione e che, da poveraccio com'è, si rimpinza di hamburger e patatine, di fritture oleose e intingoli grassi nelle catene dei McDonald; la magrezza, questa sì che è impronta di signorilità e di performance fisica, garantita dalla più avanzata (e costosa) scienza dietologica.
La "taglia 42", scrive Fiorenza Tarozzi, è il limite della decenza, al di là del quale si precipita gradualmente verso l'obesità suina. Un altro autore, Luca Vercelloni, ci avverte che nelle scuole di Francia si sta consumando un esperimento per rieducare le giovanissime generazioni ai sapori naturali, contro le perfidie della "cucina grassa". Il terrore del colesterolo e dei trigliceridi getta il consumatore moderno in uno stato permanente di ansietà e l'induce a soffocare gli appetiti col ricorso ai rimedi della medicina alternativa: decotti taumaturgici, pillole vitaminiche, sorbetti diuretici, nella speranza di mutare, con la sanità del corpo, l'umor saturnino, greve e malavvezzo, in quello mercuriale, che è festevole e spensierato.
Per una parte fortunata del mondo il problema alimentare non è più di carenza, ma di abbondanza. Nell'orgia dei consumi di massa anche in Italia si assapora il gusto della "globalizzazione del cibo", del "cosmofood", come lo chiamano Eva Benelli e Romeo Bassoli nella loro ricerca sugli odierni stili alimentari: per cui, tutti mangiano tutto, godendo della farandola degli alimenti che circolano ormai senza più frontiere, temporali o spaziali che siano.
I ritmi, i tempi, i luoghi di lavoro e le angustie dei nostri spazi abitativi (che hanno unificato nella "cucina abitabile", salotto e angolo di cottura), la frenesia del vivere quotidiano, hanno creato le condizioni adatte a far riproporre, da burbanzosi giornalisti alla moda e da imbonitori televisivi, le antiche norme della frugalità nella pratica della nutrizione: ma con un'ipocrita punta nostalgica dei tempi preindustriali e della salubrità e genuinità del modello alimentare contadino, che in realtà di genuino ha ormai ben poco, vista l'imponente industrializzazione dell'economia agricola, nelle cui fauci finiscono ortaggi e cereali, latte, latticini e selvaggina, subendo ovidiane metamorfosi.
Si tratta di un terrorismo dietetico interessato, a dispetto del quale è bene che la vita salubre continui a sgorgare lietamente anche dal piacere della socialità conviviale. È questo il succo quintessenziale che si ricava dalla lettura di questo migliaio di pagine, tutte accuratamente riflettute e colme di ammaestramenti. Come questo, per esempio: che c'è pur sempre un modo saggio di nutrirsi, secondo i dettami di una dieta armonica, equilibrata, qual è quella più a nostra portata, "mediterranea", capace di adattarsi per intima simbiosi ai mutamenti ciclici delle stagioni - dall'impeto sanguigno della primavera al rodimento collerico dell'estate, dalla bile nera dell'autunno fino alla flemma pensosa e ghiotta dell'inverno.

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