L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
IBS.it, l'altro eCommerce
Cliccando su “Conferma” dichiari che il contenuto da te inserito è conforme alle Condizioni Generali d’Uso del Sito ed alle Linee Guida sui Contenuti Vietati. Puoi rileggere e modificare e successivamente confermare il tuo contenuto. Tra poche ore lo troverai online (in caso contrario verifica la conformità del contenuto alle policy del Sito).
Grazie per la tua recensione!
Tra poche ore la vedrai online (in caso contrario verifica la conformità del testo alle nostre linee guida). Dopo la pubblicazione per te +4 punti
Tutti i formati ed edizioni
Promo attive (0)
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
È la storia crociana con più “fatti” e la meno filosofica, ma neanche in questo caso è possibile capire la grande storiografia di don Benedetto senza ricondurla alla trama della sua filosofia dello Spirito. Splendido lo stile.
L'ottimismo di Croce è a prova di realtà. A pag. 342 esalta la "grande nobiltà che [al risorgimento italiano] viene dall'essere sorto non come effetto d'impetuosi interessi economici o di fanatica religione ed orgoglio di stirpe, ma mosso e animato da dignità morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusto nella sua rivendicazione della patria, benevolo e fraterno verso gli altri popoli, amici e nemici". Qui Croce dimostra, per usare un gergo da commentatori di incontri di calcio, di aver visto un'altra partita, un risorgimento immaginario. Il pur benevolo e affezionato Giustino Fortunato definì 'dottrinario' il suo ottimismo, e in una lettera del 1928 a Giovanni Ansaldo scriveva di Croce: "Egli è ottimista, insuperabilmente ottimista. La sua maggiore concezione è questa, che gli uomini si dividono tra ottimisti e pessimisti". (Vedi la lunga Nota del curatore). Tuttavia io credo di aver trovato una inconsapevole e netta smentita a se stesso nelle parole che Croce scrive alle pagine 203 e 204, dove dice che è l'irriflessione, e anzi l'inerzia mentale, nei rispetti della vita politica che spiega come l'intonazione degli storici napoletani prima del Settecento si mantenesse costantemente ottimistica. E aggiunge, con convinzione solo libresca: "Ora, il segno effettivo della sollecitudine per la cosa pubblica è la trepidazione e l'angoscia e il pessimismo, come il segno mentale è la critica e la censura: pessimismo bensì non passivo ma attivo, censura concreta e concludente, ma pessimismo e censura sempre". Di fronte a queste parole, c'è da meravigliarsi che il filosofo Croce non abbia ammonito lo storico: "Nosce te ipsum".
Il giudizio di B.C. sul modo in cui il Sud fu unito al resto d'Italia è molto deludente. C. giustifica tutto quello che accadde, trovandolo inevitabile e benefico. I liberali napoletani più 'lungiveggenti', "poiché non era possibile far che l'Italia merid. entrasse energicamente da sola nella nuova via nazionale", scrive C., "la legarono al carro dell'Italia; poiché l'antico Regno autonomo era diventato un ostacolo, non si lasciarono commuovere da care memorie o turbare da pensieri particolaristici, e sacrificarono senza rimpianto il regno di Napoli, il più antico e vasto stato d'Italia, all'Italia nuova". E C. continua: "Dopo la guerra del '59 [..] si attese indarno che Napoli si sollevasse; e la nuova Italia dové essa dare l'avviata con la politica del Cavour e la spedizione di Garibaldi". C. sa tutto e conosce tutto, ma, fisso nella sua idea mistica di comunità nazionale animata da alti pensieri e profonda vita morale, non vuole capire niente di ciò che non rientra nella sua patriottica visione. "..necessaria fu, nel 1860, la dissoluzione del Regno di Napoli," scrive a p. 332, "unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale, e per dare avviamento agli stessi problemi che travagliavano l'Italia del mezzogiorno". A noi che viviamo 150 anni dopo quella unificazione e siamo testimoni senza speranza della generale corruzione nella quale l'Italia intera ha cominciato a scivolare, subito dopo l'unità, con inarrestabile accelerazione, viene naturale considerare retoriche le parole di C. e ritrovare nel carattere violento e truffaldino di quella unificazione molte ragioni della nostra disastrosa condizione attuale. Eppure C. scriveva più di 60 anni dopo l'unità e ripubblicò il suo libro nel 1943, limitandosi ad aggiornare la bibliografia. Il punto più basso di comprensione e di sensibilità C. lo tocca quando scrive che la dinastia borbonica aveva chiamato al suo soccorso le rozze plebi, "non trovando quasi altri campioni che truci e osceni briganti".
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
L'articolo è stato aggiunto al carrello
L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.
Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore