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scheda di Baricco, A., L'Indice 1990, n. 1
Si completa con questo volume la seconda sezione della Storia dell'Opera Italiana dell'EDT (la prima, più squisitamente storica, deve ancora apparire). Ai volumi intitolati "Il sistema produttivo e le sue competenze" (vol. V) e "La spettacolarità" (vol. V) segue questa geometrica rapsodia di riflessioni sul mistero dell'Opera: sei saggi raccolti sotto un titolo vago e dunque bello.
In certo modo si ha l'impressione che l'intero volume si stringa intorno a quello che è il suo scritto più significativo e teoreticamente più impegnato: "Drammaturgia dell'opera italiana" di Carl Dahlhaus. Un'ottantina di pagine che ridiscutono alla radice le premesse ideologiche e teoriche del teatro in musica fissando poi a poco a poco l'obiettivo sull'opera italiana. Una fondamentale summa del "da pensare" che attende al varco qualsiasi esegeta del teatro in musica (che poi i più dribblino abilmente il compito è un'altra questione). Dahlhaus usa un sistema che torna spesso nei suoi scritti: partire dal luogo comune, dall'ipotesi divenuta accademico dogma, e rimetterne in movimento il contenuto di verità sottoponendolo alla scossa delle mistificazioni con cui è stato tramandato. È un sistema che non porta tanto a coniare grandi risposte quanto a immettere la riflessione su un autentico cammino ermeneutico. A un simile invito sembrano rispondere gli altri cinque saggi contenuti nel volume, che si allargano a raggiera perseguire l'idea e il fatto del teatro d'opera nei suoi rapporti con la letteratura, la poesia, la storia, il mondo reale, quello immaginario, e così via. Assolutamente decisivo sembra; in particolare, il saggio che Roberto Leydi ha scritto per verificare cosa c'è di vero nell'intoccabile luogo comune che vuole il melodramma come fenomeno felicemente "popolare". In effetti, solo un etnomusicologo poteva davvero mettere alla prova tale pia illusione, resistita per anni: e i risultati a cui perviene basterebbero a imporre un ripensamento sull'immagine stereotipata che si è soliti contrabbandare del melodramma nazionale. Meno utile risulta il saggio di Giovanni Morelli su "L'opera nella cultura nazionale italiana", ma merita citarlo come esempio, in eccesso e dunque non sempre apprezzabile, di una tendenza dell'intero volume: valicare i confini di una scrittura e di un approccio frigidamente enciclopedici e arrischiare l'affascinante faziosità di una prosa e di uno stile non impersonali, al riparo da qualsiasi asettico scientismo. Un passo oltre, che sottrae il volume all'ovvietà proponendolo come modello di un sapere non più imbalsamato.
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