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recensioni di Ferraris, M. L'Indice del 2000, n. 06
La Storia della filosofia diretta da Pietro Rossi e da Carlo Augusto Viano si conclude con questi due volumi novecenteschi, che riguardano - almeno così si dice, chissà perché - la parte più opinabile di tutte le storie della filosofia: la più difficile, si dice anche, perché sui vivi (o su quelli morti da poco) è più arduo farsi un'opinione; ma non è mica vero, visto che sui vivi riusciamo benissimo a farci una opinione, e talmente bene che prima di parlare sui morti recenti si premette (o si premetteva) "parlandone da vivo". Difatti, giunti al Novecento, i manuali, liceali o universitari, si espandono quanto più si avvicinano all'epoca e spesso al domicilio dell'autore. Immagino che siano concepiti grosso modo come i manuali ontologici che Baumgarten consigliava ai poeti in cerca di ispirazione: "leggete lì, guardate quanti argomenti, regolatevi, e scrivete (o almeno pensate) qualcosa anche voi".
Però, se veniamo alle idee fondate, troviamo che c'è poco da ridere e, soprattutto, ci accorgiamo che la situazione non è recentissima, e che i filosofi erano avviati verso il Costanzo Show molto prima dell'invenzione della televisione. Già nel Sei e Settecento - leggiamo nel saggio conclusivo, a firma dei curatori - i filosofi non se la sentivano più tanto di parlare di scienza, e preferivano orientarsi verso la sfera opinabile del mondo umano e storico. La via d'uscita parve quella di rilanciare la filosofia come metodologia e fondamento generale delle scienze, e questo spiega il posto centrale che, in tutte le storie della filosofia, viene per l'appunto assegnato a Kant, che fornì (e soprattutto nella sua versione più recepita, la Critica della ragion pura) una fisica-matematica degradata, che compensava la propria povertà con la promessa di fare dell'io il proprietario dell'universo (e di lì, allora, giù Nietzsche, Gentile e tutti gli altri). Per misurare l'invadenza di questo schema basterà constatare quanto si applichi alle esperienze di pensiero più disparate. Lasciando da parte le varie e numerose famiglie di neokantiani, perché il gioco sarebbe troppo facile, si consideri che quasi tutto quello che si è fatto nella filosofia del Novecento può tranquillamente ricadere sotto una forma di trascendentalismo più o meno esplicito: ermeneutica, semiotica, strutturalismo, filosofia del linguaggio, storicismo.
Vedere per credere. Dilthey si chiede come fondare le scienze dello spirito? Ovviamente, si tratterà di integrare la critica della ragion pura con una critica della ragione storica. Heidegger lascia incompiuto Essere e tempo? Due anni dopo, per metterci una pezza, non trova di meglio che esplicitarne la struttura trascendentale con Kant e il problema della metafisica. Gadamer deve urbanizzare Heidegger? Che cosa di meglio del dire che "l'essere che può venir compreso è il linguaggio", cioè che le condizioni di possibilità dell'esperienza sono condizioni di possibilità degli oggetti dell'esperienza? Lévi-Strauss decide invece che la storia non serve a niente? Subito Ricoeur trova la formula per definire il suo progetto: "un kantismo senza soggetto trascendentale". E via di seguito, con riferimenti kantiani che diventano ancora più espliciti in Apel e in Habermas, e persino nei loro nemici giurati. E, ancora nel nostro decennio, John McDowell, con Mente e mondo, trova la sola via di uscita per curare lo scetticismo che riduce l'esperienza a qualcosa di identico agli schemi concettuali con cui è letta attraverso un richiamo a Kant.
Dietro c'è sempre un assunto. C'è la realtà, che è l'oggetto delle scienze della natura, e che è generalmente - e a giusto titolo - stimata, per cui, quando Quine indaga From a logical point of view (e non Verso un punto di vista logico, come si legge a un certo punto: è un calypso di Harry Belafonte: "From a logical point of view / better marry a woman older than you) sta dicendo "da un punto di vista scientifico". Poi ci sono delle super-realtà, apparentemente più importanti, di fatto poco interessanti: le ideologie degli scienziati, le credenze delle persone comuni, e insomma tutto ciò che si muove nella "sovrastruttura". Di questo regno dei cieli, o di questo refugium peccatorum, si occuperà la filosofia, con esiti generalmente relativistici (tanto la verità che conta, e su cui ci si gioca la vita, è assicurata dalla scienza).
Il modo in cui questo schema, del tutto persuasivo, si articola nell'opera, è questo: il secolo si apre con Bergson, Russell e Husserl, prosegue con lo storicismo, l'idealismo, il marxismo, e con le loro crisi nell'esistenzialismo, nell'empirismo logico, e nelle varie forme di restaurazione spiritualistica. Le ultime parole sono affidate alla filosofia del linguaggio, alla filosofia della mente, alle teorie della comunicazione, così come al postmoderno e al decostruzionismo. Su alcune di queste (direi sulle ultime tre che ho menzionato) c'è in larga misura poco da sperare, e capisco che siano riportate, in taluni casi, per scrupolo di completezza, benché certe volte non senza imbarazzo (Pagnini affronta il ponte Dalla psicoanalisi al decostruzionismo con il disagio di una persona per bene in un luogo di malaffare, ma probabilmente è proprio il ponte a far problema, e personalmente non me la sentirei di mettere in un solo calderone Freud e Lacan, Derrida e Deleuze). C'è poco da sperare, tra l'altro, perché non sono metodi o veri e propri programmi di ricerca, ma costituiscono piuttosto (essenzialmente nel caso di Derrida) creazioni geniali che lasciano poco spazio alla prosecuzione. Ma sulla filosofia del linguaggio (o, meglio: sull'area culturale in cui è sorta), così come sulla filosofia della mente (i capitoli sono rispettivamente di Marconi e di Lolli), c'è molto più da sperare, e nei fatti si tratta, attualmente, degli unici ambiti in cui si svolga un'attività filosofica teorica. Detto questo (e appurato che c'è ancora qualche campo per la filosofia, diciamo tanto quanto ce n'era ai tempi di Bergson e di Husserl), non condivido per intero l'analisi di Rossi e Viano, che risulta, per quel che vedo, contestabile in due punti.
Il primo è il fatto che, almeno in sede di bilancio complessivo (diversa è la situazione che si ricava dalla lettura dei singoli contributi), il Novecento sembra chiudersi con un quindicennio di anticipo, ossia con la contrapposizione - che a giusto titolo Rossi e Viano considerano apparente - tra gli analitici e i continentali, ossia fra due modi (simpatetico l'uno, antitetico l'altro) di considerare il rapporto subalterno della filosofia nei confronti della scienza. Il secondo è che ci sono autori originali, e che esulano da questo quadro complessivamente non euforico, che trovano poco spazio, o nessuno. Tanto per fare un esempio, Alexius Meinong viene rappresentato poco più che Manfred Frank (cioè, nel testo invece che in nota), von Ehrenfels non è nemmeno nominato, la Gestalt è trattata di passaggio (mentre magari si parla sin troppo di Merleau-Ponty). Husserl è presente con un eccellente saggio di Ettore Casari, ma c'è relativamente poco spazio per il movimento fenomenologico, mentre (sia pure con un atteggiamento critico) è sin troppo presente Heidegger. Inoltre, se ci sono ben due capitoli espressamente dedicati alla teologia, forse si sarebbe potuto concederne uno alla psicologia.
Lo dico non per fare il solito gioco degli esclusi, ma per attenuare il pessimismo che domina almeno in sede di conclusione. È insomma vero che nel Novecento si è fatta molta filosofia scadente, confusa con la politica, con la teologia, con la letteratura, con la mitologia vecchia e nuova, oppure rincorrendo le Scienze Paradigmatiche (cioè, come ai tempi di Kant, la fisica), ma non è tutto. Ci sono delle opinioni filosofiche che hanno tenuto banco per un bel pezzo, ma che ora mostrano la corda, e sono pronto a scommettere (tanto per dirne una) che tra non molto sarà difficile leggere (poniamo) che "è solo all'interno di un orizzonte linguistico che mi è dato fare l'incontro con qualcosa", che l'arte è porsi in opera della verità, che l'Essere è qualcosa che trascende gli enti, e altre amenità o tetraggini che sono circolate a sazietà nel secolo che si sta chiudendo, e che proprio per questo hanno stufato.
Insomma, non è affatto vero che la Scienza (ricordiamoci che non ce n'è una sola) vive del suo presente, mentre la Filosofia (ricordiamoci, anche qui, che non ce n'è una sola) rumina il suo passato, come suppongono le identificazioni (non storiografiche, si noti, ma teoretiche) della filosofia con la storia della filosofia. Basta vedere come invecchiano i filosofi e come si succedono quelle che una volta si chiamavano le sette filosofiche, e ora si chiamano "correnti" o "indirizzi". Se si gira in una biblioteca, è una esperienza molto viva e impressionante: si leggono dibattiti degli anni cinquanta, o magari anche settanta e ottanta, di cui si stenta a capire il senso, e che molto spesso suscitano ilarità. Rideranno anche di noi? È possibile, ma non è un argomento.
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