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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2007
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In sette anni, Alberto Bevilacqua ha pubblicato cinque romanzi e una raccolta di poesie da Einaudi. Questo Storie della mia storia sfugge a una classificazione precisa, e Bevilacqua ne dev'essere al corrente, non meno del suo editore. Così, forse ad accompagnare il lettore sorpreso da ben quarantanove racconti, novelle o, come da titolo, "storie", ecco un sorprendente pieghevole con titolo identico a quello del libro e sottotitolo minaccioso: Contributi critici. Come la sorpresa nell'uovo di Pasqua, si gusta prima quella del cioccolato, non importa se e quanto buono. I contributi critici non hanno firme qualsiasi, al punto che la pagina in prefazione chiude con garbo: "Grandi autori e grandi critici lo hanno amato". E poi, giù una schidionata di pareri eccellenti, da Sciascia a Bioy Casares, da Palazzeschi a Getto, da Pampaloni a Goffredo Petrassi (e se ne trascurano parecchi). Il piatto forte è però un dialogo fra Jorge Luìs Borges ed Eugène Ionesco, sui temi del mistero e del grottesco nell'opera di Bevilacqua.
Il mistero, anche il paranormale, e di conseguenza il grottesco sono senz'altro due fra i temi dello scrittore di Parma, non meno del sesso, di Roma, sua città adottiva, della maternità e di chi sa quanti altri, in una carriera che data ormai più di cinquant'anni e l'ha visto ottenere quasi tutti i riconoscimenti letterari che uno scrittore può attendersi (salvo errori, gli mancano soltanto il Viareggio e il Nobel). Non stupisce allora il virgolettato di Sciascia, in quarta di copertina: "È il bilancio di una vita, è l'angoscia di conti che si devon far tornare, è confessione, è ironia, è nausea esistenziale. Ma è anche pietà, è anche amore". Troppo facile dire che, messa giù così, sembra che questo libro voglia esser tutto: facile e corretto. Bevilacqua, autore di grande successo, ha come lettore implicito se stesso. Fra i non pochi autori di bestseller, è quello che meno nasconde il suo narcisismo, consapevole che anche per questa sua improntitudine di fondo trova riscontro di pubblico. In questi racconti, a volte senza dubbio autobiografici, altre di taglio quasi narrativo, c'è un protagonista unico: lo scrittore Alberto Bevilacqua. Ora rievoca turpi rituali contadini (il racconto è Il tempo della leggenda), ora è la parodia del "buon padre di famiglia"del Codice civile (Quando vado a prendere i miei figli), ora il marito pensoso (Separazione giudiziale) e via a riempire, senza saturarle e, va detto, senza annoiare quasi mai 374 pagine di narrazione.
La lingua di Bevilacqua è facile, a tratti un po' troppo, il gusto per le scene madri non gli deriva né da Pasolini né da Visconti, con cui pure lavorò, ma dal suo conterraneo e circa coetaneo Bernardo Bertolucci, ma tutto sembra potersi ricondurre alla Vita quotidiana come rappresentazione. Di Erving Goffman Bevilacqua conosce le tesi, ne è interprete ottimo e sulla base dell'idea della "vita come teatro" (nel caso di specie sarà magari "vita come cinema") ha costruito la sua carriera fortunata e anche questo gradevole episodio, fintamente testamentario. Bisogna riprendere l'interpretazione sciasciana, quattro semplici righe in quarta. È costruita di soli sostantivi (bilancio, vita, angoscia, conti, confessione, ironia, nausea, pietà, amore), eccetto un aggettivo passepartout (esistenziale) e un predicato (tornare, preceduto dal fraseologico far). La scelta di quella citazione è ovviamente autoriale e, come tale, vale da interpretazione autentica. Se la parte nominale contiene, come già visto, tutto e il suo contrario, e attrae quindi in potenza ogni genere di lettore, l'area verbale è ristretta a un verbo che riassume quello sì una vita di scrittore: tornare. Alberto Bevilacqua è scrittore di continui ritorni, che di questo movimento a ritroso conosce anche le morbosità (in questo senso, spiccano nelle Storie della mia storia le tre dedicate all'eros).
La vita come teatro o come cinema comporta, nell'interpretazione dello scrittore di Parma, una dose consistente di artificio. In questo libro, la questione, che pure sussiste, non dà fastidio, per quanto è subito decrittabile. Se la mollezza di alcune (o molte) fra queste pagine non irrita, cioè, è perché la s'intende autenticamente en travesti. Inoltre, la misura breve pare quella più consona al Bevilacqua. Il viaggio a Parma con Charlie Chaplin (Charlot) è un ritratto degno di memoria, così come, in fin dei conti, il tono di quiete apparente che informa queste Storie della mia storia. Giovanni Choukhadarian
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