Steve McCurry è un avventuriero, un po' incosciente come molti reporter, che racconta ormai da decenni alcune tra le più difficili aree del mondo attraverso fotografie di grande impatto visivo. Questa descrizione però, che potrebbe adattarsi a molti fotografi del Novecento o contemporanei (anche italiani sconosciuti in Italia) non basta a spiegare il successo di McCurry nel nostro paese. La questione è cruciale: in Italia sono pochissimi i nomi di fotografi che attraggono il grande pubblico alle mostre o in libreria; la nostra cultura fotografica, per un complotto che vede uniti scuola, università e una gestione finora quasi esclusivamente politica dei beni culturali, è alimentata da poche iniziative "pop" o dalle grida nel deserto di qualche studioso o fotografo. Tutti fotografano, pochissimi conoscono la fotografia. Il lavoro svolto da McCurry in Afghanistan, India, Tibet e altrove è oggi sintetizzato in questo elegante volume che ne esalta la qualità fotografica. Mc Curry è un cacciatore-raccoglitore indifferente al rischio, che cerca il contatto con le persone e le ritrae di prospetto, consapevoli, oppure le inserisce in quegli scenari di ricchezza coloristica e fascino misterioso rintracciabili solo in alcune regioni dell'oriente. Lo spirito del suo lavoro è quello di molti reporter, che abbelliscono il dolore per stimolare almeno una riflessione su mondi lontani dal benessere. Le immagini che lo hanno reso celebre richiedono solo una sobria contestualizzazione; non era quindi necessario arricchire il testo del volume con commenti al limite dell'agiografia, come hanno fatto i curatori inglesi dell'edizione originale. Ma per ciò che riguarda l'Italia (paese ipersensibile ai fenomeni mediatici di massa) viene il sospetto che qui abbia contato più che altrove "l'icona" che ha accompagnato tutta la carriera del fotografo: la foto della bambina afghana dagli occhi verdi. Gli ingredienti ci sono tutti: la bellezza femminile, un contesto di evidente violenza, l'infanzia offesa, i contrasti cromatici di qualità pittorica, uno sguardo accusatorio che riassume tutti i sensi di colpa dell'occidente. Il messaggio è semplice ed efficace, una sintesi della potenza della fotografia ma, più che sul senso del lavoro del reporter, pone interrogativi sull'importanza di una diffusa cultura fotografica: senza questa, cioè senza la consapevolezza del valore conoscitivo, culturale, politico della fotografia, le icone della contemporaneità non rischiano di essere quelli che Susan Sontag definiva degli "analgesici morali"?. Gabriele D'Autilia
Leggi di più
Leggi di meno