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Artificio è la caratteristica della maggior parte delle scrittrici italiane sulla breccia. Forse dovrebbero cercare la spontaneità che prima era propria dell'impegno femminile.
diciamo la verità,il libro precedente"stanza 411" era molto meglio(era davvero arioso,non furbetto,piacevolmente smaccato e anche un po sanamente doloroso ) Quest'ultimo delude un po davvero(la storia è davvero poco emozionante,però la frase sulla pvoertà,come gia ricordato da qualcuno,qui,è notevole),ad ogni modo la recensione de L'Indice è davvero troppo dura
Patetico nel senso più imbarazzante del termine; di una banalità sconvolgente, ridicolo e visibilmente artificioso. Forzato, senza idee, pieno di buchi narrativi colmati da mucchi di insignificante mediocrità. Concordo pienamente con chi dice "non degno di Einaudi".
Recensioni
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L'ultimo romanzo di Simona Vinci risale a un anno fa (Stanza 422, cfr. "L'Indice", 2006, n. 12). Ammontava a 116 pagine. Questo arriva undici mesi dopo e raddoppia circa la lunghezza. È inoltre, e salvo errori di calcolo, il nono suo libro in dieci anni. La Vinci di Dei bambini non si sa niente (cfr. "L'Indice", 1997, n. 11) possedeva, per Simona Argentieri, "uno stile (
) sgradevole, ma mai volgare; costruito, ma sincero". Vinci aveva al tempo ventisette anni. Ora gli anni sono trentotto e la lingua continua a essere sgradevole, ma intanto è ostentata. Il risguardo di copertina recita, fra l'altro: "L'odore nauseante di una merda di cane che mordeva le narici". La scelta è senz'altro autoriale e ha magari come intenzione di sorprendere o suscitare turbamento in qualche lettore. A gennaio 2008, l'effetto di questa e innumeri frasi del genere di questa è pari a zero. L'editore di Simona Vinci fu colpito dall'"agorafobia della sua scrittura"(sic). Sarà; intanto quella scrittura ricorda sovente certi presunti approfondimenti giornalistici da seconda serata di tv generalista.
La storia perché qui, beninteso, si assume ci sia una storia è quella di una donna che cammina sulla strada provinciale cui il libro è intitolato. Siccome Vinci è donna di lettere e di mondo, si dev'esser resa conto subito che lo spunto non è di quelli originalissimi. Allora il tiro è corretto dalla dedica ("a tutti quelli che 'preferirebbero di no'": è così anche Barteby è della partita) e da ben tre citazioni in esergo (Duras e Bataille, immancabili, e un trascurabile proverbio ucraino, che però fa molto globalizzazione). In corso di strada, la donna incontra ogni possibile genere di relitto umano: iniziando, come da copione, con una prostituta e un dialogo in inglese smozzicato con lei; e passando, si capisce, per un accoppiamento stradale, di quelli che tutti incrociano quasi ogni giorno andando magari a lavoro. Come spesso in Vinci, non rileva tanto il fatto raccontato, ma il registro della voce: "Mentre osserva l'uomo piegato sopra la schiena della donna, il cazzo affondato nelle piega scura delle natiche di lei, le mani strizzate sulle tette, quel movimento oscillante, a scatti brevi, sempre più ravvicinati, e ascolta quel gemito soffocato denti che spingono contro la carne senza riuscire a lacerarla, saliva che schiocca e scivola sulla pelle dei lampi si aprono nella sua testa". Si può anche sorvolare sull'asperità sintattica di questo periodo: la sintassi è da tempo un ammennicolo, e poi si è letto di peggio in Italia, in questi e altri anni. Certo stupisce come facilmente convivano Charles Bukowski in traduzione italiana e gli echi inevitabili di Gabriele D'Annunzio (nell'inciso tra lineette, la prima proposizione consuona in "r", la seconda in "s": pare di essere piombati di colpo nel Poema paradisiaco).
Il punto è però che niente più stupisce, nella scrittura di Simona Vinci. Questo libro, il cui finale merita di non essere svelato, non aggiunge né toglie niente a quanto si sapeva di lei. È oramai una scrittrice finita (nel senso di Papini, bene inteso), che non disdegna le forme di prestigio ma solo e soltanto se accoppiate a climi tetri, al buio della foto di copertina e poi di tutto il libro. La sua narrativa ha smesso da tempo di creare problemi, di suscitare interrogativi; e lo ha fatto da che è diventata (se non lo era già in partenza) ri-scrittura di scritture preesistenti. Simona Vinci è, concludendo, una scrittrice di professione e, in quanto tale, testimonia la ragione di chi sostiene che gli scrittori di professione siano i meno interessanti. Giovanni Choukhadarian
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