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Finalista al Premio Campiello 2019
Descrivere il presente osservando la vita di una strada. Raccontare il Novecento attraverso la storia di un quartiere. Ritrarre il declino collettivo nelle vicende di un singolo uomo. Il nuovo romanzo di uno dei più originali scrittori italiani.
«Una penna straordinaria che restituisce un tempo - il secondo 900 - e un luogo - Roma - con lo sguardo unico di chi vede deteriorarsi ciò che ama.» - Helena Janeczek
«I bravi scrittori ti sorprendono sempre alle spalle. Francesco Pecoraro sa colpire con ciò che io, da solo, non riuscirei mai a immaginare.» - Nicola Lagioia
«Ho la sensazione che ci sia qualcosa di straordinario nel modo in cui Pecoraro percepisce e restituisce l’architettura interna e complessa di segni all’apparenza minimi.» - Giorgio Vasta
Primi anni Venti di questo secolo nella «Città di Dio», decadente metropoli che assomiglia molto a Roma. Un uomo di circa settant’anni osserva dal settimo piano della sua palazzina le vicende dello «Stradone»; i tanti personaggi che lo percorrono incarnano tutte le forme del «Ristagno» della nostra società. Invecchiamento e conformismo, razzismo e sessismo, sopravvivenze popolari e «trentelli» rampanti, barbagli di verità, etnie in conflitto, il fantasma dell’integralismo islamico, la liquefazione di sinistre e destre e della classe media in un unico «Grande Ripieno»: nulla sfugge a questo narratore disordinato ma perspicace, che pare saper restituire meglio di chiunque – con ironia, cinismo, nostalgia, umorismo – il non senso del nostro presente. Racconta anche, l’uomo senza nome, la propria esistenza di «Novecentesco», aspirante storico dell’arte, funzionario di Ministero, uomo che ha creduto nel comunismo e poi si è fatto socialista e corrotto, con i suoi amori e, oggi, l’ossessione per la vecchiaia, la malattia, la pornografia; e ricostruisce infine – con documenti veri o quasi-veri – la storia di un quartiere i cui abitanti, operai e proletari, per secoli e fin oltre la metà del Ventesimo, hanno prodotto qui i mattoni di cui è fatta la Città: il quartiere più comunista e antifascista della Città, forse visitato da Lenin – personaggio inatteso di queste pagine – nel 1908. Il risultato è un libro assolutamente unico nel panorama letterario non solo italiano, in cui la passione politica, antropologica e linguistica, le vicende di una vita, di un quartiere, di un intero secolo concorrono a un’esperienza di lettura indimenticabile: un’illuminante – tragica ed esilarante – avventura di conoscenza.
«Jeans falso consumati. Falso strappati. Pantaloni falso mimetici. Borse mimetiche. Capelli falso giovani, rossastri. In giro falsi rasta. Falsi gangsta, falsi rap. Falsi punk. Falsi giovani. Borchie falsamente utili. Magliette falso scolorite. Falsa vita vissuta. Falsa esperienza, falso inconscio, falso immaginario, falsa coscienza. Falsa la metropoli, falso il lavoro. Falso legno, falso antico, false le cacche di mosca su falsi mobili. Il falso grezzo nei ristoranti falso-fichetti, o vero-fichetti per falsi fichetti. Falsi gli hipster con false barbe folte lunghe tagliate quadre, false camicie da falsi boscaioli, birre falso-artigianali. False calvizie, falsi muscoli con tatuaggi falso tribali. Veloci sfrecciano bassi falsi pappagalli verdi, frutto del riscaldamento globale, anch’esso artificiale, posticcio».
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Libro che unisce saggismo e romanzo. Pecoraro è laureato nel campo artistico e un grande appassionato di arte. In questo libro, non a caso, si lancia in numerose descrizioni , anche molto minuziose. Il narratore e un uomo ritrovatosi a vivere in una casa che si riversa su una strada dai grandi fasti storici, oggi però ridotta quasi in rovina. Comunista deluso, laureato deluso, funzionario deluso, l'uomo, ormai in pensione, racconta e descrive la sua quotidiana, mediocre esistenza.
Un' opera che sorprende. Lo fa in molti modi ma quella che più colpisce è la descrizione maniacale, puntigliosa, insistente di quello che l'autore vede e vuole trasmettere al lettore. La città è Roma (mai citata con il suo nome di battesimo), ma potrebbe essere una qualsivoglia grande capitale europea. Lo scorcio di quartiere che Pecoraro descrive si cela dietro "Lo Stradone" ma anche qui lo si potrebbe addattare ad una qualsiasi città di grandi dimensioni. Da questi scenari parte la narrazione dello scorso secolo intriso di vicende e leggende, storia e politica, speranze e depressioni. Tutto accade nello Stradone!
Diciamo che non è il mio genere di libro preferito, ma devo dire che con ironia, umorismo è riuscito a portarmi a terminare questo libro, sospeso tra passato e presente e con spunti di riflessione molto attuali.
Recensioni
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Francesco Pecoraro, l’Esausto sullo Stradone
Filippo Polenchi
Non basta avere qualcosa da osservare: importante è sapere come farlo, inteso anzitutto come declinazione posturale. L’io-osservante dello Stradone di Francesco Pecoraro lo immagino in piedi, dietro una membrana trasparente (una finestra di casa, al settimo piano di una “palazzata”), con un “binocolo comprato dai cinesi” in mano. È irrequieto, cambia posizione: si siede, scrive, osserva ancora, rimugina. Lo scrivente (lo studioso) per il Deleuze che scrive di Beckett è la figura dell’esausto, giacché – come dice Agamben nella postfazione all’omonimo libro – “esausta è […] quella possibilità che si è portata come tale nell’atto e per questo non ha più alcuna possibilità di essere messa in atto e realizzata”.
Si vive fra le macerie di una possibilità implosa: essenziale è descrivere la circoscrizione del proprio sguardo, allora. Così, il Narrante percepisce serenità soltanto al “Carrefour”, perché lì le possibilità del suo desiderio (e il desiderio, si sa, è anzitutto occhio-che-vede, Peeping Tom, “la mentula umana non tollera menzogna, tranne quella, tragica, dell’immaginazione”) sono limitate: “lo spazio di manovra [...] coincide con ciò che ci possiamo comprare, anzi che ci dobbiamo comprare”. Desiderio, immaginazione, violenza politica del consumismo. È questo il pianeta di una mente che non cancella, anzi, che tiene traccia di tutto (in fondo Lo Stradone inizia come Eraserhead di David Lynch, con lo stesso prologo galattico).
Per questo pensionato – storico dell’arte bruciato a un concorso universitario, poi integrato nel Ministero, prima comunista, quindi socialista, corrotto, con un brevissimo periodo di incarcerazione (in quanto pesce piccolo) alle spalle, ora pensionato, che vive in una “palazzata” lungo lo “Stradone”, a ridotto del “Quadrante”, nella “Sacca”, insomma, incastrato come un corpo sofferente nella Roma/“Città di Dio” – la possibilità si è trasferita nell’atto rimanendo tale. Esausta.
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