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"Il problema storico della cosiddetta 'Riforma in Italia' è l'identificazione e la descrizione" delle "variabili forme di consapevolezza con cui, per un cinquantennio, uomini d'ogni strato sociale ritennero secondo una gradazione articolatissima di lucidità e di impegno attivo di poter demolire o trasformare o riformare o ritoccare le strutture e le forme che la società cristiana aveva assunto in Italia". Affrontare la storia ereticale del Cinquecento, "secolo tutto teologia", significa infatti riconoscere il ruolo della varietà, della gradazione e della differenza: seguire nei suoi labirintici percorsi una "riforma radicale", che si sviluppa accanto e contro quella ufficiale di Lutero, Zwingli e Calvino; riconoscere la "fluidità" e la complessità di esperienze religiose "che sfuggono protervamente a ogni precisa caratterizzazione in senso strettamente teologico". E le vicende degli eretici italiani si proiettano ogni volta sull'Europa, in un continuo andirivieni delle biografie e dei libri (e della ricerca) fra Zurigo, Bologna, Basilea, Venezia, Londra, Modena.
Nemico dell'"evasiva stravaganza metodologica" e poco incline al "gusto del patetico", Rotondò ha sviluppato brillantemente questo programma nella sua lunga carriera fiorentina, segnata dalla lezione di grandi maestri come Giorgio Pasquali, Eugenio Garin e Delio Cantimori. La raccolta postuma di questi scritti illustra alla perfezione il profondo sapere, la delicatezza e l'apertura d'orizzonte indispensabili negli studi storici. Nel lavoro quotidiano per identificare i "contenuti", ricostruire i "processi" e comprendere la "diversificazione degli orientamenti", lo studioso deve infatti manifestare un "policentrismo d'interessi" e una strenua volontà di decifrare "le infinite forme di uso e abuso della storia".
È dunque significativo che l'appassionata ricerca sui movimenti religiosi del Cinquecento contenga un vivace richiamo all'umana responsabilità e insieme all'"opera dell'educazione". L'esempio dei pensatori riformati, che respingevano "una concezione di passiva irresponsabilità dell'agire" e invocavano un "uso non dogmatico della ragione", indica la via da seguire; e non a caso l'autore si sofferma su una lettera dell'esule fiorentino Francesco Pucci, dedicata proprio al "vincolo tra maestro e discepolo, attraverso il quale si apprendono le buone 'massime' e si diventa 'acconci dentro'". Alla "scuola" rinvia infatti l'esistenza munita di "progetto", che accomunava fino all'esilio e al sacrificio gli eretici cinquecenteschi in nome di una critica non dogmatica: modello ripetuto fedelmente dallo stesso profilo intellettuale di Rotondò, com'è disegnato nello scritto autobiografico che apre la silloge. È allora un po' malinconico il congedo pronunciato dallo studioso "al momento di lasciare l'ufficio di insegnante", nel 2003: preso da un "disperato disappunto di fronte a un'istituzione ridotta all'incapacità (
) di suggerire progetti esistenziali". Non all'istituzione universitaria, ma ai libri, alle biblioteche e alle "piccole comunità dialoganti" Rotondò sembra affidare l'estrema sopravvivenza dell'esercizio magistrale: poiché anche lui, come Pasquali, era "persuaso di potere insegnare tutto, a tutti, dappertutto", incarnazione dell'ideale rousseauiano del maestro di scuola come scuola di libertà". Rinaldo Rinaldi
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