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Nikolaus Tarabas, «ospite su questa terra», è una delle grandi figure romanzesche di Joseph Roth. Ma soprattutto è uno dei rari personaggi della letteratura moderna che rappresenti, immediatamente, un destino. «Io leggo nella sua mano che lei è un assassino e un santo», così dice una zingara al giovane Tarabas – e tutta la sua vita sarà una corrente turbolenta e disordinata, i cui meandri appaiono solo se la si guarda da una certa distanza. Fin dall’inizio Tarabas, giovane russo di agiata famiglia, è in preda alla «indiscriminata passionalità» del suo cuore, a una rapacità vitale che copre una ancor più profonda furia di morte. Tarabas è bello, imperioso e ama sentirsi potente. Ma non ama la vita: vuole solo dominarla, pungolato da un segreto, superstizioso terrore che essa gli incute. Verso le donne è possessivo e prevaricatore; verso gli uomini è insofferente – e al massimo tollera che siano suoi subordinati ubbidienti. La sua unica «patria» sarà la guerra, la crudele, caotica guerra che infuria sulla «frontiera occidentale» dell’Impero russo, nel momento del suo disgregarsi. E nel raccontarci questa guerra, dove Tarabas presto diventa un’incarnazione del guerriero terribile, «despota» devastatore, cacciatore astuto in cerca di vittime, Roth si abbandona come mai altrove al passo grandioso dell’epica. Questo romanzo della sua piena maturità (1934), in cui sembra echeggiare la brutalità che sobbolliva in Europa, è però innanzitutto una abbagliante parabola sulla violenza. Alla violenza collettiva (memorabili pagine sono dedicate allo scatenarsi di un pogrom) si intreccia qui la violenza di un essere come Tarabas, «pozzo profondo e buio», forse il personaggio più affine, in Roth, a certi mirabili ‘mostri’ del romanzo russo. E, come quei personaggi, Tarabas è capace anche di imprevedibili, stupefacenti metamorfosi. Così vediamo il guerriero persecutore diventare un mite vagabondo, che vaga per le capanne di una campagna dove respira i profumi della sua infanzia, ignoto a tutti. Un immenso pathos agisce qui, ma senza traccia di sentimentalità: la brusca conversione di Tarabas non ha nulla di edificante – e non avviene neppure per una esplicita illuminazione religiosa. Si direbbe invece che in lui – e qui Roth ha, ancora una volta, una trascinante intuizione psicologica – la violenza si denudi progressivamente di fronte a se stessa, fino a scoprire la sua radicale debolezza, la paura e l’odio per la vita che la nutrono. Di quella violenza era stato attore «l’eternamente immaturo Tarabas, a cui i sensi confondevano la testa, che si abbandonava agli eventi come arrivavano: all’omicidio, all’amore, alla gelosia, alla superstizione, alla guerra, alla crudeltà, alla ubriachezza, alla disperazione». La sua silenziosa maturità sopraggiungerà insieme alla morte, quando sarà riuscito a farsi perdonare dal piccolo, vaneggiante ebreo dai capelli rossi che il destino gli aveva indicato come vittima. Tutta l’inestricabile e soffocante matassa dei fatti e delle torture umane sembra lasciare un minuscolo, miracoloso spazio vuoto, che permette di guardarla da fuori, in una luce pacificata.
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La piacevolissima sensazione che mi ha preso fin dalle prime righe di questa storia è quella sensazione che solo alcuni fra i grandi scrittori classici riescono a darmi, perché dosano con il giusto equilibrio gli elementi essenziali della narrazione. Dal suo sviluppo al ritmo, al suo respiro; dall'approccio accogliente col lettore allo stile fluido, elegante, dal linguaggio morbido e accessibile, tutto concorre a mettere a suo agio il lettore, a sedurlo, ed egli ci si abbandona dolcemente. È come se qualcuno si prendesse cura di te e ti preparasse un bel bagno caldo profumato di schiuma e di sali, con luci e musica soffuse e ti invitasse ad entrarci con un galante "Gradisca..." E io ho assai gradito. Forse, un centinaio di anni fa, era questo il mestiere dello scrittore.
Il mio preferito di J.Roth? Molto probabile. Uno dei personaggi più riusciti di Joseph Roth, che in questo romanzo dona la vita a Tarabas, demoniaca figura che dopo la rivelazione iniziale da parte di una zingara - "Io leggo nella sua mano che lei è un assassino e un santo" - scatenerà tutto il suo essere bestiale. È un personaggio negativo, malvagio e che disprezza la vita. Solo Roth e pochi altri (Dostoevskij ci è riuscito con Ivan Karamàzov) sono stati in grado di rendere affascinanti e memorabili personaggi di questo tipo, che oltre ad essere protagonista e simbolo di una splendida parabola/metafora letteraria, ha l'incredibile capacità di entrare nel cuore dei lettori e, come per tutte opere di Roth, di lasciare un messaggio.
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