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Questo disco è una bomba”. E lo è sul serio. L’ascolto in cuffia può essere molto pericoloso per l’apparato uditivo e, se non si sta attenti, potrebbero manifestarsi cambiamenti repentini d’identità. Iniettarsi direttamente nelle orecchie brani come ‘Get Serious’, ‘Get A Job’ o ‘Green Bean’ (feat. Joe Sample) crea, appunto, i seguenti danni collaterali: arrivato alla terza traccia eccoti che ti ritrovi a parlare come un afroamericano, intercalando qua e là con uno “yeah” baritonale. Fai una pausa, stremato. ‘You Better Finish What You Started’ ti entra in testa quasi come una minaccia, una sfida… Hai voluto l’ultimo disco della Unit, e mo’ te lo becchi tutto. BOOM. Assetato di funk, un po’ esitante ti rimetti le cuffie e vai avanti. L’effetto si ripete in maniera esponenziale. Alla sesta traccia stai già facendo il preventivo per cambiare il colore della pelle comodamente seduto dal parrucchiere, che sta trasformando i tuoi capelli in quelli di Esperanza Spalding. Finito il disco, sei completamente rimbecillito. Continui a tenere il ritmo, a gongolare la testa slappando un mocho vileda. Il petto ti vibra ancora e tutto il mondo sembra che abbia più colori.Il basso, ora avvolgente ora bello slappante, di Coltrane Price e la batteria di Ikiz costruiscono una struttura, un binario d’acciaio intaccabile, vorticoso ma stabilissimo, un groove vibrante e intenso dove gli ottoni scatenano i loro temi, soli e cori. Un organo svirgola e accenta, il trombone di Nils dirige l’ensemble formidabile. I soli sono studiati ma appassionati, uno intreccia l’altro… Un ping pong virtuoso che cresce verso il tema mentre la tua testa non la smette di andare su e giù, gonfiandoti il petto come fossi in caduta libera. Dal funk “legittimo” a un po’ di marchin’ band (‘Green Beans’), con un po’ di sfumature brasiliane: un album colorato, carnevalesco, perché il funk jazz è allegria e divertimento. Il disco si stoppa. Esausto, riponi il mocho, chiedi scusa al parrucchiere, “Basta così grazie.
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