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Come giustamente sottolineato dalla critica (si veda la preziosa prefazione di Gros-Pietro e i giudizi critici raccolti in appendice ) la voce di C. ha sicuri caratteri orfici. Elisabeth Sewell, nel 1960, pubblicò un libro dal titolo The Orphic Voice, per stabilire e delineare un forte legame tra Platone e Mallarmé, via Nietzsche. Più recentemente, Robert McGahey ha perfezionato quel saggio ponendo questa ascendenza orfica sotto l’egida della figura sciamanica, oggi incarnata nel poeta-pensatore. Il “momento orfico”—a fiore della poesia di C.—è la stretta relazione fra mito e linguaggio, tra il labirinto e la parola che lo percorre portandolo alla coscienza. Si può dire, riprendendo la bella definizione di McGahey, che mentre Platone fornisce un topos, un universo di immagini che contengono lo sforzo artigianale dell’orfismo di Mallarmé, Nietzsche gli offre una particolare ambientazione. Il suo paradigma, Apollo-Dioniso, che è una contrapposizione fondamentale delle divinità dell’arte, definendo il mondo come fenomeno estetico, crea un’inquadratura per Orfeo: divinità di un momento evanescente, che il poeta francese fa danzare ondeggiante nell’essere. Un uguale dancing into being, segna l’entrata nell’essere della parola di C.; una parola indossata dall’eroe che osa fronteggiare l’enigmatica Sfinge: “il nostro umile linguaggio / contro il chiuso labbro della Sfinge”, un eroe che “fra l’Essere si pone / e l’incerta materia / che cede al tempo, si dissolve e cade / nel silenzio del nulla / se un alito divino non la inonda”. La parola del poeta che è conchiglia, elitra vibrante, onda, “si sublima nel dio supremo asse”, concedendo all’autore di essere “l’attore inconsapevole di Dio” che pronuncia la vera parola creatrice in tutta la sua forza magica. Il fluire di “agitata oscurità” che perturba il cuore e fa pensare all’inutilità della poesia è vinto dall’attenzione alla percezione, con la quale l’oggetto poetico s’impone come unitaria parola-simbolo e parola-amuleto.
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