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Pochi angeli e qualche assassino (nella realtà o nelle intenzioni) in questo volume di Antonio Debenedetti che propone otto racconti, ambientati prevalentemente in una Roma annoiata e spocchiosa, o in una riviera ligure dai tratti malinconicamente bigi. "Tutto è un po' finto, tutto è senz'anima", anche la mancanza di empatia tra il narratore e i suoi personaggi, analizzati con scaltra ironia e quasi con malanimo, con un impietoso senso di fastidio per la loro pochezza umana. Il carattere predominante in loro, indifferentemente dal sesso e dalla posizione sociale, sembra infatti la mediocrità, in una esibita assenza di introspezione, in un sostanziale disinteresse per la ricerca di qualsiasi verità. Pochi scrupoli morali, in questi intellettuali falliti, mogli disilluse, gente dedita a vizi privati e disonestà pubbliche: persino la cattiveria rimane superficiale e spuntata, l'omicidio gratuito e impunito, l'amore grottesco. Sono persone brutte, dentro e fuori, fallite soprattutto quando si ritengono vincenti: Debenedetti le dipinge narcise, grossolane, immature. Più spietato nella descrizione della vacuità delle classi emergenti e corrotte, più indulgente verso i perdenti: l'attore mancato che si riduce a mimare la Statua della Libertà per i turisti, il transessuale che imita un sinuoso ballo erotico per due vecchie ninfomani e poi le uccide, l'uomo del sottosuolo con handicap che ammazza per scherno, la suorina che teme di cedere alla tentazione se si fa leggere i tarocchi, il poveraccio che vive in simbiosi col suo computer. "Clandestini a vita", esseri umani che frequentano "la realtà con cautela", senza mai lasciare tracce di sé nella cultura, nella storia o nella cronaca; persone inutili, animate da sentimenti minimi, da desideri inconsistenti. E la scrittura di Debenedetti si adegua a questa insipidezza, accompagnandola con una pura descrittività, senza scarti o impennate, esprimendo nella sua asetticità uno stanco disagio.
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