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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 1997
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recensione di Perrella, S., L'Indice 1997, n. 9
"Tempo perso", il terzo e sinora più maturo libro di Bruno Arpaia (Ottaviano,1957), è innanzitutto la storia e l'intreccio tonale di due voci: la voce presente di chi parla e la voce assente di chi ascolta.
Entrambe importanti, perché indispensabili l'una all'altra, in queste due voci si concentra tutta l'invenzione narrativa di Arpaia. "Tempo perso" è infatti, come ha notato Luis Sepùlveda, "una narrazione trasparente, quasi senza sorprese". Basta la sola prima pagina per farsi un'idea dell'andamento del libro: un uomo anziano, Laureano Mahojo, racconta a un giovane storico italiano la sua iniziazione alla vita. L'incontro avviene nel Messico d'oggi; la storia che Laureano srotola dalla memoria è avvenuta, invece, nella Spagna del 1934. È l", tra Gjion e Oviedo, due cittadine delle Asturie, che, durante un'insurrezione operaia, "si fecero le prove generali della guerra civile di due anni dopo".
Arpaia nel dar vita a Laureano (parente prossimo del don Espedito Principe del libro precedente) fa un uso parco e variato delle movenze scritte dell'oralità. Periodicamente, spesso ad apertura di capitolo, l'autore ricorda al lettore che qualcuno sta parlando, ma dopo poche pagine lo trasporta inavvertitamente in un punto d'indistinzione tra orale e scritto: ed è qui che la voce apparentemente muta svolge la sua funzione, perché il silenzio paziente dell'ascoltatore è anche l'operosità di chi trasforma il racconto orale in racconto scritto. Ed è qui che si misura la maturità narrativa raggiunta da Arpaia e il suo pudore a dire io direttamente.
Per il ragazzo Laureano, la rivoluzione delle Asturie, prima che un'esperienza politica, fu la scoperta dei sentimenti fondamentali e pulsanti della vita: il distacco dai familiari, il senso dell'avventura, la vicinanza con la morte, l'amicizia (con Mariano e Armando), l'amore (con Pilar). Al senso e all'utilità delle rivoluzioni, alla spinta utopica che le muove, Laureano penserà dopo, stimolato anche dal suo giovane interlocutore italiano, che da lui sperava di sapere qualcosa di più sugli ultimi giorni di vita di Walter Benjamin.
Saprà, invece, che a Laureano la parola utopia non è mai piaciuta. Dell'utopia, che ha dato vita anche alla rivoluzione da lui vissuta, oggi lui vede l'aspetto di "fregatura", il primo passo verso il totalitarismo: "Dovremmo lasciarla fuori dalla storia, l'utopia (...) Bisognerebbe trovare qualcos'altro che nello stesso tempo ci faccia sognare e non sognare, dormire con gli occhi bene aperti, pensare e non pensare".
È qui che pulsa il vero cuore del libro. Ed è chiaro che il personaggio di Arpaia non trasforma, come spesso avviene, il disincanto in cinismo: piuttosto spera in un'utopia ragionevole. Ma è possibile un'utopia davvero ragionevole?
Si tratta di una domanda capitale che comincia a risuonare nei libri migliori degli scrittori della mia generazione; una generazione che ha vissuto il dramma del terrorismo e anche attraverso queste narrazioni sta per fortuna metabolizzandolo.In "L'onore delle armi" di Alessandro Tamburini (Bompiani,1997), un libro sorprendentemente consonante con quello di Arpaia, durante un viaggio nell'Eritrea di oggi sulle tracce di quella del 1941, s'ascolta ad esempio questa invocazione: "Dimmi se c'è una strada, uno stratagemma per non tradire se stessi e gli altri, per non cadere nella menzogna". (Forse lo stratagemma consiste, come sembra suggerire Tamburini, nel "saper accettare senza farne un'infelicità la propria debolezza"?).
È possibile forse leggere questi libri come una comune ricerca di figure retrospettive del destino; la ricerca di chi si sente fuori dall'orbita di un destino vero e proprio e dunque senza un'esperienza reale da raccontare. E sopperisce a questa situazione inventandosi un destino narrativo che, privilegiando decisamente le strade del romanzo, ritorna alla narrativa del secondo dopoguerra: non è dunque casuale che in alcuni passaggi di questi libri si avverta il ricordo, per Arpaia, di "Il sentiero dei nidi di ragno" di Calvino e, per Tamburini, di "Tempo di uccidere" di Flaiano: e per entrambi conti la lezione di Fenoglio. Ma se quelli erano libri di un liberatorio dopoguerra fisico, questi sono i libri di un perenne dopoguerra mentale.
Riaprendo un po' a caso il precedente romanzo di Bruno Arpaia, l'occhio mi cade su questa frase: "Non la si fa finita con il tempo, mai". Libro dietro libro ( "I forestieri", Leonardo, 1990 e "Il futuro in punta di piedi", Donzelli, 1994; cfr. "L'Indice", 1995, n. 7), il tempo diventa sempre più esplicitamente il tema principale del lavoro narrativo di Bruno Arpaia. È vero che non c'è narratore che non possieda una spiccata sensibilità per i fenomeni della temporalità, primo tra tutti, naturalmente, quello della narrazione. In Arpaia, però, il tempo sta assumendo una centralità tematica inusuale, come se egli volesse trasformarsi in un particolarissimo biografo della temporalità.
Il tempo non solo come evento studiato dai fisici, inventori delle teorie più spericolate, di cui Arpaia si è nutrito ghiottamente, ma anche e soprattutto come accumulo di moralità pratica. Il tempo, in altre parole, come storia (e racconto): la storia di chi, come Laureano, in apparenza è stato vinto e continua a esserlo, ma che proprio perché è portatore di una storia e di un destino magari rimuginati in solitudine, vince narrativamente, sconfiggendo "almeno per tutto il tempo in cui li racconta" l'odiosa e raggelante smemoratezza dell'oggi.
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