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recensione di De Romanis, R., L'Indice 1997, n. 4
Quanti avranno voglia di leggere con l'attenzione che merita il volume di Rosalind Krauss si renderanno conto che il titolo scelto per l'edizione italiana rischia di occultare il nucleo teorico attorno a cui sono imperniati tutti i saggi che lo compongono - interventi che la studiosa americana ha scritto in occasioni e con sollecitazioni diverse, tra il 1974 e il 1985, e che l'editrice parigina Macula, nel 1990, ha pensato bene di raccogliere in un volume destinato al pubblico francese.
Il titolo italiano, dicevamo, è uno di quei titoli che promettono molto - sulla fotografia, "tutto" - e che perciò deludono spesso le aspettative che generano nel lettore, in particolar modo nel lettore vorace di manuali. "Teoria e storia della fotografia" potrebbe facilmente suggerirgli l'idea di un racconto sulle sorti progressive che in centocinquant'anni hanno fatto lo straordinario successo dell'invenzione di Daguerre, di un tragitto storiografico suffragato da un approccio teorico del tutto, o parzialmente, originale. E in realtà, la riflessione teorica sviluppata dalla Krauss è indubbiamente originale, ma si dà il fatto che tutto il suo complesso discorso critico mira proprio a smontare le illusioni di quanti vogliano ancora cimentarsi nella scrittura (e nella lettura) di una storia di questo mezzo espressivo.
Il suo libro, cioè, sembra proprio voler portare altra acqua a quel mulino dove da tempo viene sminuzzata ogni velleità storiografica in campo artistico, il cui fulcro ruota attorno all'idea cardinale del decostruzionismo franco-americano: l'idea secondo la quale la storia di qualunque "medium", di qualsiasi arte o di qualsivoglia genere, è costruzione incerta e malferma, infondabile e insensata. Anche la Krauss si mostra convinta del fatto che, se si pretende di architettare un'operazione storiografica, bisogna trascegliere in mezzo a materiali di natura eterogenea e di forma diversa, e la necessità di conferire un disegno coerente a quella storia obbligherà sempre a trascurare molti, troppi aspetti del fenomeno. Pertanto, l'attività dello storico di qualunque arte non potrà che produrre due risultati: da una parte, la narrazione (ideologica) di una brutale selezione; dall'altra, un cumulo disordinato di "scarti".
Tutto questo per dire che il delirio onnicomprensivo del titolo italiano non appartiene affatto al progetto della studiosa americana; tutt'altro, è proprio quel tipo di disegno a essere attaccato e rinnegato dalla scrittura militante della Krauss. Come, del resto, dice bene il titolo e sottotitolo dell'edizione originale della sua raccolta: "Le Photographique. Pour une théorie des écarts".
Coerentemente, nella sua introduzione l'autrice ci avvisa subito che oggetto di questa sua decennale indagine non è mai stata la fotografia, e che pertanto i suoi articoli "non possono essere definiti saggi "sulla" fotografia", essendo invece analisi, eseguite con strumenti affilatissimi, di alcune modalità del "fotografico", di questa specifica pratica discorsiva. E ciò che orienta e informa tutto il suo percorso è proprio "una teoria degli scarti", perché tale approccio sembra essere per la Krauss "l'unico modo in cui la fotografia si lascia veramente pensare", e perché, se si vorrà tentare ancora di "scrivere una storia dell'arte, non sarà mai lo stesso tipo di storia che si scriverà "sulla" fotografia".
È infatti il fotografico a resistere a qualunque storia o teoria che tentino di comprenderlo: l'immagine fotografica, proprio in quanto "scarto", "sorta di intoccabile, posta allo scalino più basso della scala della produzione mimetica", è oggetto teorico che "reagisce in modo riflessivo contemporaneamente sul progetto critico e sul progetto storico che lo assumono come oggetto". Non solo: la particolarità di un oggetto teorico siffatto, a partire dalla metà dell'Ottocento, ha anche posto irreversibilmente in questione gli strumenti stessi della storia e della critica d'arte, polverizzando molte delle categorie su cui tali discipline si sono fondate (quella di "autore" ad esempio, o quella di "apprendistato", di "stile", "opera", "quadro"), certi loro generi (il ritratto, la veduta), i modi di fruizione dell'opera d'arte, la sua unicità, la sua conservazione e i luoghi della sua esposizione.
Nei saggi, a supporto di tali affermazioni vengono portate prove di varia natura, riscontri che risultano tanto più autorevoli in quanto provengono dalla trentennale attività critica dell'autrice. Il ramificato itinerario di studi della Krauss inizia seguendo l'insegnamento formalista di Clement Greenberg - maestro influente per gli studiosi del modernismo - e oggi approda, momentaneamente, nelle zone dell'informale, o meglio, dell'"informe" in senso batailliano.
Oggetto delle sue ricerche sono state esperienze artistiche diverse, fin dai suoi primi lavori sulle strutture metalliche di David Smith, e successivamente sulle opere già multimediali di un Richard Serra, sulle costruzioni totemiche di Beverly Pepper. Tra i più assidui collaboratori di "October", periodico prestigioso che assieme ad altri ha fondato negli anni settanta, la Krauss si è sempre più allontanata dal formalismo di Greenberg, attraversando poi le stagioni del poststrutturalismo e del decostruzionismo.
In tutto questo prolifico percorso, però, la studiosa americana ha sempre conservato come costante una finissima sensibilità verso la visualità e il visivo, verso la percezione ottica di un manufatto d'arte. E se tra i suoi ultimi lavori c'è un libro interamente dedicato a questo - il titolo è ancora una volta significativo, "The Optical Unconscious" (1993) -, gli articoli contenuti nella raccolta ora apparsa in Italia testimoniano come la pratica fotografica sia stata per lei un continuo riferimento teorico, uno studio assiduo. I frutti di un tale interesse ci rivelano così un altro punto di vista sull'arte di molti pittori di questo secolo, obbligandoci a un diverso riguardo, a una "ricalibratura" - per usare un'espressione della Krauss -, in particolare verso quelle opere dove l'osservatore viene fortemente chiamato in causa.
I diversi capitoli del volume formano stazioni di un percorso che, sebbene prenda avvio con Nadar e si concluda con le foto pubblicitarie di Irving Penn, torna spesso sui suoi stessi passi, come a circoscrivere delle ossessioni teoriche, dei privilegiati punti di osservazione sul corso dell'arte contemporanea. Se l'interesse della Krauss sembra favorire la fotografia dei primi decenni del Novecento - gli esperimenti di Duchamp, di Man Ray e di Breton, gli "equivalenti" di Stieglitz, i "nottambuli" parigini di Brassaï - la sua riflessione, con moto coatto, torna infatti a misurarsi con il fenomeno surrealista, sostenendo una tesi il cui fascino non deriva solo dalla sua stravagante proposta critica. L'interpretazione di tutto il surrealismo, notoriamente, risulta da sempre viziata dalle definizioni contraddittorie che ne ha dato Breton, il suo "mago" e "fondatore"; a quanti ancora oggi si sforzano di trovare un modello teorico che possa conciliare esperienze e poetiche tanto diverse, la Krauss risponde ponendo al centro della parabola surrealista proprio la fotografia. In tal modo, l'immagine fotografica perde il ruolo secondario che generalmente le viene attribuito da tutti i critici e gli storici del movimento - ossia, quello di semplice illustrazione per i testi surrealisti, di irriverente divagazione per i pittori del gruppo - per conquistare, invece, quello di principio di unità e di coerenza formale.
Dove forse meglio la Krauss ci fa intravedere, nella filigrana di un dipinto, tutta l'importanza dell'esperienza pittorica, è nella sua analisi appassionata del "Grande Vetro" di Duchamp. In questo, come in tutti i lavori dell'artista francese, la dissoluzione del concetto tradizionale di opera d'arte risulta del tutto consumata e la fotografia - come qui ci viene mostrato - è forse la maggiore responsabile di tale rivoluzione. Nella smania assimilativa dell'argomentazione non ci viene però detto che quell'"opera" rimane in effetti incompiuta - come invece ricorda più volte Octavio Paz in quel suo bellissimo libro su Duchamp dal quale l'analisi della Krauss, curiosamente, pur prende in prestito le prime parole. E ciò non è un dettaglio secondario perché se, come scriveva Baudelaire agli esordi del Moderno, la nostra epoca, oltre al "frammentario", ha come suoi tratti distintivi il "non finito" e l'"insignificanza" (una tesi che Antoine Compagnon ha voluto ribadire in uno dei suoi "Cinque paradossi della modernità"), il segno fotografico che tanto naturalmente ci fa dimenticare tutta l'arbitrarietà del suo rapporto con il referente, che si costituisce con un semplice gesto, un atto, un clic che cristallizza in senso definitivo la forma di un attimo, il segno fotografico, dicevamo, sembra costruire un codice ben diverso da quello praticato da Duchamp. (E in questo stesso senso, noi aggiungiamo, ben diverso pure da quello messo in atto dalla pennellata materica che ha costruito, strato dopo strato, il corpo peculiare di tanta pittura novecentesca). Da questo punto di vista, il gesto inconcluso di Duchamp sembrerebbe allora stare alla fotografia come gli echi di una parola stanno al suono di uno sparo.
Ma lo sappiamo bene: "traccia, supplemento, indice" o "icona" (queste le categorie con cui oggi si usa interpretarla), l'immagine fotografica appare sempre ai nostri pregiudizi come appesantita dal suo medesimo fondamento, zavorrata dalla realtà. Tra i molti pregi del libro della Krauss c'è quello, indubbio, di averci mostrato i modi straordinari in cui alcuni artisti degli ultimi cento anni hanno saputo trarre, dallo sguardo di Medusa dell'apparecchio fotografico, alcune insolite visioni.
Questo libro costituisce un approccio alla fotografia in aperta rottura con le teorie dominanti che la riconducono ai canoni estetici propri della storia dell'arte. Questo testo si pone accanto a opere come la Piccola storia della fotografia di Walter Benjamin, La camera chiara di Roland Barthes e Sulla fotografia di Susan Sontag.
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