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Siamo in Afghanistan durante l'occupazione russa. Un narratore che non conosciamo osserva la scena davanti a sé e si rivolge ai protagonisti dandogli del tu. La sua non è una conversazione, in realtà, ma una descrizione di ciò che vede e di ciò che avverte nell'animo dei due personaggi che sta osservando. Un vecchio di nome Dastghír è seduto con le spalle appoggiate al parapetto di un ponte, insieme con il nipotino Yassín, che ha fame. Gli porge una mela. Il bimbo ha perso da poco gli incisivi di latte, non riesce a mangiare, allora il vecchio trae dalla tasca un coltello, riprende la mela e comincia a tagliarla in tanti pezzettini, che offre al bimbo. Attendono un mezzo di trasporto che li conduca alla miniera, dove lavora il figlio del vecchio, che si chiama Moràd, padre del bambino. Nell'attesa scorrono nella mente del vecchio "le immagini e i sogni di ciò che hai visto, ma che non volevi vedere... o di ciò che devi vedere, ma che non vuoi vedere". Il vecchio, con i suoi pensieri, con i suoi atti, è il protagonista principale di questo breve romanzo, che descrive, non tanto la guerra, ma la desolazione, il dolore e lo smarrimento che genera, quasi una lacerazione della propria identità. L'autore lo fa con uno stile insolito, attraverso questa voce del narrante, che in qualche modo partecipa e accompagna il protagonista. Sembra una voce di conforto, di consolazione, di presa d'atto, di guida, che a poco a poco non è più estranea, ma pare sorgere direttamente dal vecchio Dastghír. Si celebra amaramente in questo romanzo, condotto sulle note di un lirismo delicato, il viaggio del dolore, che è di tutto un popolo, non solo di Dastghír. Il viaggio: ossia la lacerazione che ci portiamo dentro del dover raccontare per generare ancora dolore. Ma non è tutto, scopriamo pure che il dolore cammina da solo, anche senza di noi: ferisce e ci trasforma.
Un dolore violento, devastante, trasformato in poesia. Un racconto quasi onirico dove si confondono realtà e sogno, violenza e rassegnazione, tenerezza e realismo disincantato. Una storia di disperazione raccontata con la leggerezza di una favola. Un tempo gradevolmente lento che sembra avere il ritmo stesso dell'attesa di quel vecchio e quel bambino su una strada polverosa dell'Afghanistan. Il tutto dentro una cultura estranea a quella occidentale, ricca di sentimenti forti, orgoglio, regole e sentimenti inviolabili. Un "incontro" toccante con una realtà sconvolgente e una sensibilità sorprendente.
La guerra distrugge tutto. Distrugge l'uomo, la famiglia, ci mette uno contro l'altro, anche se abbiamo lo stesso sangue. La guerra cancella il ricordo, la memoria, uccide l'anima e non rimane che respirare polvere e cenere.Allucinato.
Recensioni
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Sono gli anni dell'occupazione sovietica in Afghanistan, Un padre, Dastghír, porta un bambino, suo nipote, verso il figlio, Moràd. L'uomo è messaggero di notizie tristissime: il loro villaggio, il villaggio di Polkhomrì, è stato bombardato dai russi a seguito di una sommossa di disertori. Deve dunque annunciare al figlio la morte di tutti i cari (la madre e la moglie, madre del bambino che sta viaggiando con lui). Il viaggio è cadenzato dal continuo alternarsi di un presente agghiacciante, e un passato recente e altrettanto terribile. Che valore ha questo continuo rimando di immagini del passato che tormentano la vita di Dastghír, e di tutti gli afgani che abitano il villaggio e i suoi dintorni?
Sì, lui è lacerato da ciò che ha vissuto e di qui l'espressione: "Le immagini che vedo, e non voglio vedere, e quelle che non vedo e vorrei vedere". A grandi linee, è un'allusione a un antico poema mistico persiano che diceva: "Sono in questo mondo, e vedo cose che non vorrei vedere; e le cose che vorrei, non sono là". È la non concordanza tra quello che vorremmo vivere e quello che ci rifiutiamo di vivere. E purtroppo l'Afghanistan è stato un po' questo: cioè una proiezione eccessivamente sbilanciata nel nostro immaginario, o nel nostro passato. Cose, dunque, che non esistevano più, mentre il presente era una realtà che volevamo a ogni costo evitare. E si trattava di questo, dello scarto tra l'intensità dell'uomo e quello che era fuori di lui: tra la speranza e la vita reale. Tutto il libro racconta questa frattura, di cui il romanzo è una sorta di congiuntura: già lo stesso personaggio di Dastghír è diviso in due, è lacerato. Per questo parla a se stesso con il "tu". Quindi c'è sempre, questo spazio tra lui e il mondo, tra lui e la vita.
Questo continuo viaggio nel passato comporta per il protagonista, Dastghír, una sorta di irrealtà che lo porta a confondersi con altre persone e con varie figure del suo passato. Si può parlare di una sorta di "spersonalizzazione"?
Quando davvero entriamo nel personaggio di Dastghír, capiamo che è frantumato in mille pezzi. Ama la sua immaginazione e vuole essere altri, a volte persino tornare bambino. Ma non in questo mondo: in una realtà immaginaria. Continuamente si interroga sul passato, si chiede: "Perché ho agito così? Avrei dovuto agire diversamente...". È una figura antecedente la guerra, un semplice contadino la cui sola preoccupazione era avere o non avere qualcosa da mangiare. Ma con la guerra, con i morti e davanti alla morte, si è trasformato in una persona che si pone altre domande. Questioni esistenziali: quel che è importante, ora, non è più avere o non avere cibo, ma essere o non essere, ed essere come o non essere come. Ha trovato una sua coscienza in rapporto alla vita e in rapporto alla morte, e in ragione dei suoi molti interrogativi si moltiplica, la sua persona diventa molte persone grazie alla letteratura e ad altre "debolezze", ma anche grazie a un codice d'onore che impone la fierezza.
Lei, Atiq Rahimi, è nato a Kabul. In che anno ha ottenuto l'asilo politico, e da quando vive a Parigi?
Ho lasciato l'Afghanistan nel 1983, in piena guerra afgano-sovietica. Ero studente a Kabul, presso la Facoltà di Lettere. Ero al secondo anno, e non avevo più voglia di vivere una vita in cui non mi identificavo, non solo dal punto di vista ideologico, ma anche culturale e politico. Così ho scelto la strada dell'esilio. Ho fatto nove giorni di cammino attraverso le montagne per arrivare al Pakistan, e lì ho chiesto asilo politico all'ambasciata di Francia, che ho ottenuto poco dopo. Non volevo restare nemmeno in Pakistan, perché il clima di terrore religioso che all'epoca dominava mi disgustava. Anche per questo, da quando sono arrivato in Francia ogni giorno mi dico: "Non sono un rifugiato politico, sono un rifugiato culturale".
La presenza delle immagini. Qual è il suo rapporto con il passato visivo della sua vita in Afghanistan?
Sono da poco rientrato dall'Afghanistan. È stato curioso, perché ci ero tornato per girare un documentario per l'emittente televisiva francese "Arte", e avevo una telecamera con me. Non appena sono sbarcato all'aeroporto di Kabul ho avvertito un blocco, un rifiuto a filmare. La sola cosa che mi veniva da fare era scrivere, e resistevo a fare delle riprese. Perché, come lei ha capito, l'immagine per me è troppo sacra, e al tempo stesso ho l'impressione di rubare qualcosa, attraverso l'immagine, e che anche l'immagine ruba qualcosa a me: la mia memoria, la mia interiorità. Sentivo l'impulso di scrivere perché era il solo modo di appropriarsi di qualcosa, e riporre questo qualcosa dentro di sé. Di riflettere: perché riflettere è l'unica vera cosa importante da fare, mentre ho la sensazione che l'immagine rapisca questa capacità di riflettere, perché l'immagine è più forte. Anche la storia di Terra e cenere era una storia di immagini, all'inizio. Nel 1981, mentre ero in Afghanistan per fare un reportage sulle miniere di carbone, tutti i giorni passavo davanti a un ponte per entrare nella zona delle miniere. E un giorno ho notato un vecchio e un bambino, appoggiati al parapetto del ponte. Volevo scattare una foto: invece, per un problema della macchina, la foto l'ho persa. Questa frustrazione mi ha portato a conservare l'immagine nella testa. E per questo, credo, ho scritto: perché avevo perso l'immagine. È così anche il mio rapporto con la letteratura: trattenere le immagini dentro di me, e poi riflettere su ognuna di esse.
Attraverso questo racconto così breve ed essenziale, privo di qualsiasi abbellimento, il dolore prende parola, Atiq Rahimi?
Sì, che arrivino in un modo o nell'altro, dolore e sofferenza riescono a manifestarsi, sia con le lacrime, sia con le bombe. E per me il personaggio di Dastghír è tutte le cose insieme. E per me, che non ho versato lacrime, né ho buttato bombe, né mi sono fatto esplodere, per me sono le parole l'unico modo per esprimere la sofferenza. Non solo mia, ma di tutto il popolo afgano e di tutti popoli che subiscono la guerra. Anche per questo penso che si scrive: per dire cose che altrimenti non possono essere spiegate, nella vita quotidiana.
Cos'è l'Afghanistan di oggi, rispetto a quello del conflitto afgano-sovietico che lei racconta in Terra e cenere?
Quando ci sono tornato, quasi vent'anni dopo, pensavo di trovare qualcosa di un po' diverso rispetto all'Afghanistan distrutto che avevo lasciato. E invece l'ho trovato degradato, con ovunque tracce della guerra, della sofferenza, della repressione e del terrore sui volti della gente. Ma una cosa straordinaria è che, malgrado tutto, la gente ha conservato il sorriso, e questo mi ha commosso, enormemente. È la cosa più antica, questo sorriso; e chi non conosce la storia dell'Afghanistan, può pensare che sia un popolo anche felice, perché tutti sorridono. Ma basta parlare con qualcuno per avvertire la disperazione, la depressione, la tristezza. E c'è questo paradosso, tra quel che appare fuori e quel che si sente dentro: proprio come nel protagonista, Dastghír.
Una delle cose più straordinarie di questo romanzo, è l'uso della seconda persona. Lei parla a Dastghír con un "tu", un "tu" che suona come un imperativo a continuare a vivere, a non "combattere con Dio dentro di sé", come lei dice che a volte Dastghír ha la tentazione di fare. Le è venuto spontaneo, l'uso di questa seconda persona?
Sì e no; in principio avevo scritto tutto il romanzo in terza persona, ma non funzionava. Poi c'è un momento in cui Dastghír si specchia nella latta di una scatola, ed è stato lì, in quell'istante, che la terza persona si è trasformata in seconda. Ho capito che funzionava molto meglio, anche per quello che lei dice, la necessità di trovare una voce interiore, che dia degli ordini al personaggio. Se ho usato la seconda persona, è anche per mostrare la lacerazione psichica di cui parlavo all'inizio. È una specie di messa in scena, perché il lettore può sentire di essere interpellato, ma se invece legge ad alta voce, ha l'impressione di essere lui a rivolgersi ad altri. Dunque c'è un gioco di specchi, tra lettore e personaggio, e tra narratore e personaggio.
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