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Franco Brogi Taviani usa un italiano bellissimo, impeccabile e fluido, alto e intimo, creativo, pieno di invenzioni e neologismi, di complessa semplicità Il tesoro è naturalmente una metafora: insegui qualcosa di soltanto tuo, lo cerchi, forse c’è forse non c’è più, non lo trovi, forse lo troverai oppure no". La storia comprende il ventennio 1944-1964 in Italia, in Toscana, dai 4-5 anni del protagonista ai 18-19: guerra, dopoguerra, memorie della guerra, percorso di crescita dal sogno e la fantasticheria al realismo e alle manganellate poliziesche durante le manifestazioni politiche, evoluzione dall'aspirazione eroica alla normalità. La visione è quella di un bambino e di un adolescente, descritta da un adulto: grande effetto e, sempre presente, il tesoro. E’ un tesoro autentico, nascosto chissà dove nella casa del gran signore ebreo dove la famiglia del protagonista abita, o nel vasto giardino che circonda la casa, o nello stanzino dalle pareti ancora macchiate di sangue dove il padrone di casa e altri suoi correligionari erano stati massacrati dai nazisti. Il tesoro incombe come un gioco incantevole, come un incubo inestricabile, come un desiderio disinteressato: da anni l'intero quartiere seguita a parlarne, qualcuno si vanta di saperne di più, il bambino-ragazzo si tormenta e poi si quieta. Il suo protagonista, Guglielmo, è sventato, buffo, delicato: non un bambino d'altri tempi ma l'eterno bambino atemporale, esagerato e sensibile come la sua età, comico e spaventato come l'esistenza agli inizi. Sarebbe difficile staccarsi dalle sue avventure, mirabolanti quanto forti. Lietta Tornabuoni TuttoLibri "La Stampa"
La Repubblica - Martedì, 21 Giugno 2005 - CULTURA Per chi avesse dimenticato di ricordarsi dell'infanzia, è urgente leggere il romanzo di Franco Brogi Taviani, Il Tesoro (Marsilio, pagg. 292, euro 15). Facevamo anche noi alla lotta, e si viveva in cento mondi paralleli costruiti dalle fantasticherie; c'erano l'onnipotenza e i terrori, i defatiganti negoziati con il mondo dei grandi, e, troppo furbe le ragazzine col "biancore che s'incicciottava in fessura". In più, il piccolo Guglielmo del romanzo ha una bella fortuna: avere a disposizione, un vero giardino inselvatichito. è il giardino della villa toscana abbandonata - i ricchi padroni ebrei trucidati dai tedeschi - dove si istallano alcuni sfollati nel dopoguerra, e tra loro la sua famiglia di borghesi. In quella giungla amichetti sleali e lesti di mano, stanzini che trasudano sangue, lucciole, cavallette, bambine, gatti rognosi: ogni ben di Dio. E la mappa di un tesoro: tutti sanno, nella cittadina, che il proprietario della casa Pardo Vidas, il notabile ebreo trucidato, vi ha nascosto, da qualche parte, i suoi beni - "e' qvi? è qvi?", chiedevano i nazisti, la notte delle torture e del massacro. Anche il dopoguerra ha le sue tragedie ("ma tu, a marito e moglie, ci giocavi anche con Aldemaro?"), che tengono lontano il disincanto; e intanto si intrecciano, indelebilmente comici, i destini di chi attraversa il perimetro smisurato del giardino, e dello stupore di Guglielmo. In questo primo romanzo di un regista - fratello dei fratelli Taviani - più dei dialoghi conta lo sguardo, e più i gesti delle intenzioni. Laidi, bischeri e benintenzionati, tutti producano teatrini di irresistibile spasso sotto l'esame intento del ragazzino. Mentre Guglielmo cresce, ingombrato, più che dalla necessità di sembrar furbo, da un fardello di tenerezza da piazzare - la Figgiccì alla peggio? le botte certo somigliano alle lotte infantili, e le ragazze sono bambine ritrovate ¬- il tesoro periodicamente si riaffaccia. Ma il bene definitivamente ricuperato da Taviani è la lingua it
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