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Anno edizione: 2016
A tre anni di distanza da Time Stays, We go, The Veils tornano con il loro album più cupo di sempre, anche questa scala cromatica di cupezza ascensionale va di pari passo con un certo manierismo, una diabolica ricerca di perfezione sulfurea (perfetta in questo senso anche la copertina di Nicola Samorì, con una delle sue deformazioni pittoriche) o per – dirla con il titolo – di Total Depravity. Ma se il diavolo fa le pentole e non i coperchi, The Veils fanno pure i coperchi, curando la depravazione nei minimi dettagli.
Insomma, immaginatevi il solito quadro di Bosch con contaminazioni più cinematografiche tra Lynch e Paul Thomas Anderson, un inferno postmoderno dove tra le presenze inquietanti potete imbattervi in mostri marini (tipo l’Axolotl, ovvero la salamandra messicana, che dà il titolo al primo singolo, per quanto lo spaventoso anfibio sia una di quelle creaturine che finiscono sempre nelle gallery degli animali buffi), o in camionisti psicopatici o in una serie di raffinate celebrity da Ingrid Bergman a Steve McQueen, passando per il Papa e Ron Hubbard.
Nell’eterna lotta tra bene e male, si sa che il male ha sempre più fascino, eppure nella terra desolata di Total Depravity, dove c’è poco spazio per la speranza, The Veils lasciano aperto almeno uno spiraglietto per l’amore, come in Do Your Bones Glow at Night? (“Love guide me out of this harsh, ungrateful land of the damned”), un pezzo in cui il rock melanconico cede un po’ alla seduzione lasciva di un tormentone pop.
Ma l’amore resta comunque una questione più di rimpianti che di redenzione, come in House of Spirits, o di inutili attese beckettiane come nella lenta, dolentissima In the Nightfall (“Darling how long do I have to wait to have you alone in the nightfall?”). Prodotto da Adam “Atom” Greenspan e Nick Launay, già accoppiata vincente per Nux Vomica del 2006, Total Depravity evoca un certo mood alla Nick Cave & The Bad Seeds (con cui Greenspan e Launay hanno collaborato), ma la voce di Finn Andrews si gioca tutte le carte, sperimentando tra diverse gradazioni di cavernosità, sensualismo ed enfasi e riuscendo a spaziare dal Peter Murphy dei Bauhaus (Total Depravity) al Dan Auerbach solista (Low Lays the Devil, uno dei pezzi più belli dell’album), fino a concedersi performance salmodianti dal sapore beat come in King of Chrome. Voto 4/5
Recensione di Veronica Raimo
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