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Jouhandeau (1889-1979), teologo sempre sull'orlo dell'eresia, cattolico praticante ma morbosamente attratto dalle manifestazioni del male in tutte le sue forme e perversioni, fu cronista attento degli anni della ricostruzione postbellica francese, romanziere prolifico ed elegante, polemista mai pretestuoso. In questo volumetto, apparso in Francia nel 1962, non è tanto la descrizione di tre crimini abietti a colpire la fantasia del lettore, quanto l'analisi psicologica e ambientale di protagonisti e comparse delle vicende, molto lucida e distaccata nonostante l'evidente empatia dell'autore. E soprattutto le sue dichiarazioni di principio, a commento morale e ideologico dei fatti. "Ho sempre avuto, e credo lo abbia anche il cielo, un debole per i colpevoli": sconcertante nella sua assolutezza, così Jouhandeau apre il resoconto del primo dei tre delitti narrati, che ha in comune con gli altri due una specie di ritualità magico-sacrale, insieme a una brutale efferatezza. Non è il caso di esaminare da vicino tanta turpitudine, e in fondo nemmeno l'autore lo fa, se non nell'ultima storia (è la nota critica di Ena Marchi che ci rende edotti sui particolari più macabri). Interessano forse maggiormente le dichiarazioni d'intenti di Jouhandeau: "A me sembra che al cospetto di Dio ciascun uomo vivente condivida il peso di tutto il bene e di tutto il male di cui ad ogni istante la nostra specie si rende responsabile..." Ma alla colpa attiva corrisponde in gravità anche quella laterale, fiancheggiatrice: di chi osserva e non interviene, di chi collabora tacendo, di chi biasima per sentito dire. Jouhandeau ha parole di fuoco per tutti coloro che usano violentare le anime altrui, responsabili del delitto più grave: quello contro lo spirito.
Recensioni
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recensione di Merlino, G., L'Indice 1996, n. 7
Nato nel 1888 a Gueret, nel Limousin, e morto nel 1979, Marcel Jouhandeau - scrittore quasi ignoto in Italia- porterà dentro di sé, per tutta la vita, alcune stimmate della vita provinciale di fine secolo: brutale e intensa, ripetitiva e profonda, autentica insomma.
Educato e un po' circuìto da donne dèdite e adoranti, attratto dai cerimoniali dell'introspezione ma attirato anche dall'osservazione rasoterra della vita minuta e quotidiana, lacerato - e mai straziato - tra due diverse inclinazioni, tra quella, cioè, del piacere fisico conosciuto precocemente e prolungatosi fin nella vecchiaia (piacere che per lui è l'amore dei giovani maschi) e quella dell'austerità, degli slanci e delle consolazioni della fede religiosa e delle devozioni, Jouhandeau, in tutta la sua opera vastissima, parlerà appunto della provincia, delle vite ritirate e nascoste, della propria famiglia di grandi prosatori involontari, dell'intermittente rapporto con Dio, della caccia erotica, della lotta con il desiderio e della mirabile peripezia della sua vita coniugale: un'epica matrimoniale in forma di "cronache", con al centro la moglie Elise indomabile e iconoclasta.
Esistono scrittori del corpo - e sono pochi -, ed esistono scrittori delle passioni nate dal corpo - e sono più numerosi. Ma quali sono le passioni nate dal corpo? Naturalmente sono l'amore, la lussuria, le fascinazioni istantanee, la contemplazione della bellezza e l'adorazione che ne consegue, il desiderio dell'abiezione fisica e morale o la rinuncia virtuosa e la castità, ecc. Jouhandeau appartiene a questo secondo tipo di scrittori. Un suo libro, ad esempio, ha per titolo "La scuola dei ragazzi" (1953), un altro "Sull'abiezione" (1939), un terzo "Del puro amore" (1955), un quarto, infine, "Tiresia" (1954), il greco che sperimentò su di sé la femminilità ... le famose mammelle di Tiresia! E poi anche un "Don Giovanni" (1948) e i "Taccuini di don Giovanni" (1948).
La prosa di Jouhandeau è casta, classica, quasi austera: egli non lavora sulla parola preziosa - come usava molto nel primo Novecento - n‚ sulla complicazione sintattica, ma lavora con parole semplici e quasi abusate che, con lui, riprendono a scintillare perché sono state messe nel posto giusto accanto ad altre parole giuste, e le sue frasi ricercano solo l'armonia della cadenza e la forza della densità. La sua è una prosa al tempo stesso confidenziale e profetica.
I lettori di questo libretto, "Tre delitti rituali", curato con perizia da Ena Marchi, vedranno subito come l'aggettivo "rituale" conti più del sostantivo "delitto".Quali sono i tre crudelissimi crimini accaduti nella Francia degli anni cinquanta? Una giovane donna uccide la propria bambina per compiacere l'amante, un intellettuale verboso e imprudente; una donnetta avvizzita e anonima, con un rituale sordido e terrificante, uccide nel sonno l'angelica moglie del suo amante mentre questi mormora parole di menzognero conforto alla moglie accoltellata affinché non urli; e infine un parroco della Lorena, libertino ma morbosamente legato al proprio carattere sacerdotale, assolve e poi uccide la giovane donna incinta di lui, le squarcia il ventre, battezza il bambino che viene alla luce con gli occhi sbarrati, lo pugnala alla schiena e lo sfigura.
Che cosa attira Jouhandeau in questi delitti? La casualità del male, i terribili malintesi tra gli amanti, le parole dette per posa e che si trasformano in armi, l'automatismo sagace della crudeltà, la cecità repentina dell'anima, lo stupore attonito del colpevole di fronte all'assassino che egli è stato. Sono poche pagine nelle quali l'analisi di una mente diventa un racconto visionario. Anche Jouhandeau - ottimo latinista - avrebbe potuto ripetere con Freud: Acheronta movebo, solleverò gli Inferi; e però, più evangelico dell'analista, avrebbe forse aggiunto: portae Inferi non preaevalebunt.
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