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Commentando un "capolavoro sconosciuto" uscito quello stesso anno, Mobile di Michel Butor (reportage del proprio viaggio negli Stati Uniti, mai tradotto in italiano), nel 1962 Roland Barthes notava come esso infrangesse una delle regole più sacre, proprio perché mai scritte: "Il Libro (tradizionale) è un oggetto che connette, sviluppa, fila e scorre, in una parola ha il più profondo orrore del vuoto". E "dietro questa condanna del discontinuo, si nasconde evidentemente il mito stesso della Vita". Tutti sanno che la vita è in verità alquanto discontinua e che essa, per dirla con quel barbaro non privo d'ingegno, è più simile a "una storia narrata da un idiota, piena di rumore e di furia, ma che non significa nulla". Eppure questa verità tutti, o quasi, la rifiutiamo; e allora ci costruiamo stampelle cognitive, chiamate narrazioni, per dimostrarci ogni volta che invece ha senso, la vita, uno sviluppo coerente: principio, svolgimento e fine.
Di questo mito il romanzo, allora come oggi (e oggi più di allora), è in letteratura la forma deputata. In quegli anni sessanta, però, almeno si tentò di mettere in discussione le forme storiche del mito: le forme del romanzo, appunto. In quello stesso '62, per esempio, Marc Saporta sulle orme dei Cent mille milliards de poèmes di Queneau, pubblicati l'anno precedente realizzava il suo equivalente narrativo, Composition n. 1: 148 pagine non numerate e slegate che il lettore era chiamato a variamente ricombinare. Altro esempio eminente, nel '67, il secondo romanzo di Edoardo Sanguineti, Il giuoco dell'oca (di recente riproposto da Feltrinelli nel volume complessivo Smorfie): 111 capitoletti che l'autore predicava di leggere nell'ordine casuale dettato dal lancio dei dadi che governa il gioco del titolo.
In tutti questi esperimenti, tuttavia, la libertà di lettura resta virtuale, potenziale. Nessun lettore può pensare di pedissequamente osservare le istruzioni di Queneau, "eseguendo" tutte le combinazioni possibili dei suoi dieci sonetti. Ma, se non può farlo un singolo lettore, forse può un super-lettore come il calcolatore elettronico. Fece molto rumore, nel '61, il componimento Tape Mark, realizzato da Nanni Balestrini appunto con l'ausilio di un computer. Era anche il periodo di Opera aperta di Umberto Eco: che l'anno dopo riconduceva le sperimentazioni novecentesche dalla musica atonale alla pittura informale all'imprevedibilità e all'"apertura" co-autoriale degli interpreti. Ma anche in questa concezione l'apertura restava virtuale, tutta del lettore. Mentre la "pratica" di Balestrini metteva radicalmente in questione non solo l'univocità di senso dell'opera, bensì addirittura l'unicità della sua compagine materiale.
Di Balestrini torna ora in circolazione il primo romanzo, Tristano, mai più ristampato dalla princeps uscita alla fine del 1966 nella collana "I Narratori" di Feltrinelli (accompagnata da un'onirica gouache della giovane Giosetta Fioroni). Solo oggi infatti, grazie a una macchina digitale della Xerox, si rende concretamente possibile l'"apertura" allora concepita ma non realizzata (se non, appunto, "virtualmente"): "Una tiratura di copie uniche numerate, contenente ciascuna una diversa combinazione del materiale verbale precostituito, elaborata dal computer secondo un programma stabilito" (così l'autore nella nota che accompagna il libro). Come dice proprio Eco nella vivacissima prefazione (che ripercorre di gran carriera la genealogia dell'ars combinatoria, da Raimundo Lullo a Leibniz sino a Borges e appunto Queneau): "I programmatori dicono che con il progetto balestriniano si possono comporre 109.027.350.432.000 libri diversi". A differenza da Queneau e Saporta, dal momento che ogni esemplare è materialmente diverso dall'altro, è impossibile che due lettori leggano lo stesso testo. Non solo; rispetto alla princeps, Balestrini ha ulteriormente rimescolato le carte, sottraendo alcuni frammenti e introducendone di nuovi: cosicché nessuna delle duemila copie tirate presenta un testo completo.
Come ben sintetizza Luigi Weber nel saggio di cui si parla a parte, "prima di scoprirsi narratore 'epico'" rielaborando "l'oralità di collettivi marginalizzati e antagonisti" (con il ciclo, cioè, che va da Vogliamo tutto del '71 a Sandokan del 2004), "Balestrini narratore muoveva da un sistematico riuso di fonti scritte". In Tristano, "manuali di fotografia, di botanica, letteratura di genere giallo-rosa, guide turistiche, così come ancora in Vogliamo tutto saranno interpolati i volantini sindacali e ne La violenza illustrata e L'editore la carta stampata. Ma la misura dell'esperimento non sarà mai più così totalizzante. Ogni tipo di solidarietà macro-sintagmatica viene meno, e da una frase all'altra non è possibile rintracciare alcuna continuità". (Tutti i personaggi, per dirne una, sono contrassegnati dalla sola iniziale "C"; ma "C" si chiamano anche i luoghi che essi attraversano).
Se Balestrini resterà insomma fedele alla pratica del cut-up, è la grana con la quale viene effettuato qui minimale che non sarà mai ripetuta. Ogni frase è isolata in una sorta di immensa paratassi, unico segno d'interpunzione consentito essendo il punto fermo. La destrutturazione è totale, lo spaesamento radicale. Caratteristiche, peraltro, già del testo del '66: come dimostra la prefazione di Jacqueline Risset all'edizione francese (pubblicata da Seuil nel '72), riportata nella nuova edizione, che insiste sulla nostra ostinata ricerca di senso, anche in presenza di un meccanismo a esso ostentatamente renitente. Ed è anzi proprio a questa tensione che Risset ricollega la mitologia cui il titolo allude: "La lettura è dimostrazione esemplare di questo desiderio di significato, di un significato che infine blocchi il perpetuo slittamento del testo". Il vero eros in questione, dunque, è quello che lega il lettore al suo orizzonte di senso.
In casi come questi, però, di un dato procedimento potrebbe anche bastarci la realizzabilità concettuale. Se invece Tristano lo si legge, è per qualcosa che va al di là delle sue premesse teoriche. S'è detto come fra i suoi materiali di costruzione figurino manuali di fotografia, e vi facciano capolino frammenti di critiche cinematografiche. In ogni caso fortissima è la sua componente visiva. In molti dei frammenti a giacere in clausola è un'immagine, il più delle volte un gesto di "C". Esemplare, nella sua eleganza astratta e, insieme, tutta corporea: "C sedette sull'orlo del letto. Un pensiero mi colpì improvvisamente. Non fa più freddo. Allora che importa. Scostò le lenzuola. Si alzò aprì la porta".
Una delle caratteristiche della paratassi infinita, unita alle frequentissime ripetizioni, è la sospensione della temporalità. Ogni frase-gesto è una monade temporale, non connessa né a quella che la precede né a quella che la segue. Pensando al cinema di quegli anni, si pensa a L'année dernière à Marienbad, 1961. Eco impiegava proprio questo sontuoso apologo sulla memoria (e sul tempo ciclico) di Alain Resnais (e Alain Robbe-Grillet) come esempio di "opera aperta". Senza dire però che la cristallina, gelida struttura di Marienbad viene riscattata dall'astanza fisica di quei gesti che si ripetono ogni volta: ammalianti come, nella sua assenza di senso, la nostra esistenza. La sigaretta che si accende Delphine Seyrig, o l'enigmatico gioco al quale si sfidano Giorgio Albertazzi e Sacha Pitoeff, sono esempi perfetti di questi gesti. Che coagulano senso: anche se isolati da un contesto "narrativamente" univoco. E che anzi ci appaiono circonfusi con il loro ostinato ripetersi di un'oscura parvenza di destino.
Un libro cade a terra. Una porta viene chiusa. "Sulla pista dell'aeroporto di C dove sta correndo verso qualcosa una figura di donna un volto un altro elemento che sopravvive nella sua memoria o forse sfuggendo da qualcuno o da qualcosa" (qui viene in mente La Jetée di Chris Marker, 1962). Le clausole "gestuali" di Tristano, di una bellezza plastica rapinosa, ne fanno quasi un trattato araldico: una specie di Iconografia di Cesare Ripa in chiave pop. Una danza rigorosamente incomprensibile quanto irresistibilmente seduttiva, una serie di "mosse" che sono inequivocabilmente atti erotici (anche se nulla di esplicito, in effetti, viene mai mostrato). Tristano, insomma, è un fotoromanzo pornografico ancorché minuziosamente astratto.
Un altro esempio cinematografico di "opera aperta" faceva Eco nel '62, in pagine ormai classiche: l'Antonioni dell'Avventura e della Notte. Ma ancora una volta gli sfuggiva la sensualità di questi diagrammi così rigorosi. Una sensualità tutta concentrata nei gesti, appunto. Anche in Antonioni il gesto arriva in clausola: chiude l'arco della sequenza, architrave o cadenza del movimento, con quello che è l'equivalente ritmico del punto fermo. Proprio come in Tristano: per esempio in quella che nella versione del '66 (e ovviamente non della nostra) è la conclusione del romanzo: "Lascia che ti guardi. Si guarda intorno. Cosa hai fatto. Poi silenzio. Una frase dopo l'altra. (
) Le sfiora le palpebre con la punta delle dita. Le disse che presto sarebbero partiti e non si sarebbero lasciati mai più. Sorrise debolmente. A che pensi" (finale dell'Avventura).
Che Tristano riappaia nell'anno in cui se n'è andato Antonioni suona come un oscuro accordo. Tanto più necessario quanto più casuale. Che il congedo al nostro maggiore artista di secondo Novecento sia poi dovuto coincidere con la freddezza, se non le battute irriguardose, di assortiti gazzettieri e cinematografari vari, suona come eloquente conferma del livello cui è giunto questo paese disgraziato. Che sia allora davvero il benvenuto direttamente da quel tempo Tristano: senza riuscire a fugare il sospetto, però, che ormai non ce lo meritiamo più. Andrea Cortellessa
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