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recensione di Vindrola, A., L'Indice 1997, n. 1
Che cosa è il teatro? La domanda, oziosa nella sua vastità, trova però quando riferita alla contemporaneità un preciso punto d'approdo: perché oggi più che mai, da quando la riproducibilità è divenuta elemento integrante dei prodotti dello spettacolo, il teatro rivendica la propria estemporaneità, si identifica con la messinscena. È un teatro profondamente materico, dove non prende sopravvento l'attore, la regia, il testo, ma che dà i risultati migliori e più suggestivi quando ogni elemento è ancorato, sulla scena, a un'intrinseca necessità drammaturgica che carica di senso e attribuisce funzionalità a tutte le componenti in gioco, oggetti, luci, musica non meno che personaggi, autori, generi teatrali.
Così intesa la drammaturgia è un'operazione complessiva, che non può essere ridotta a semplice elaborazione interpretativa del testo.Quest'ultimo, peraltro, può essere un qualunque testo - ricetta di cucina o classico shakespeariano - ed è comunque un "materiale di lavoro" fra gli altri: è abbastanza raro che un allestimento, anche fra quelli pensati per la grande distribuzione, nasca dalla convinzione di dover offrire una lettura filologica inedita di qualche grande autore teatrale, semmai si ricerca il dramma dimenticato, poco noto, mai rappresentato. Da questa prospettiva risulta perciò priva di reale sostanza la tanto spesso avanzata lamentela secondo cui oggi mancano giovani autori teatrali. Ce n'è veramente bisogno?
Diciamo allora che, riflesso in questa nostalgia per l'autore, prende forma un altro teatro: un teatro scritto e non necessariamente da rappresentare. Un teatro che è prima di tutto spazio mentale, simbolico, in cui organizzare l'azione, disporre i personaggi, far interagire emozioni, pensieri, tensioni; un campo di battaglia e un codice che offre altre opportunità - prima fra tutte: l'assoluto dominio della dialogicità - rispetto a quelle narrative.
Ed ecco allora perché può accadere che un poeta pensi al teatro come alla formula espressiva più consona rispetto a ciò che vuole dire. È il caso di "Trittico dell'obbedienza" di Bianca Maria Frabotta, pubblicato da Sellerio nella sua collana di teatro. E se ha ragione Franca Angelini, che nella prefazione afferma "sul teatro dei poeti sarà lecito nutrire qualche dubbio (...) In generale si potrà dubitare dei poeti, come dei filosofi, degli storici, dei saggisti o dei romanzieri che si prestano al palcoscenico", è perché, riprendendo un'affermazione di Harold Pinter, il teatro va affrontato con pragmaticità, si lavora sulle cose.
Ma i tre atti unici riuniti sotto un unico titolo della Frabotta non rimandano al palcoscenico e alle sue urgenze pragmatiche, ma alla rappresentazione, al dramma: vivono nella parola, sono - poeticamente - teatro di parola. I personaggi di "La passione dell'obbedienza", "Il mulo sardo lo inganni una sola volta", "Bruna, o tutte le ore in agguato" sono chiamati nel dialogo a rendere mimeticamente le relazioni: nel primo, ambientato nel medioevo, è la relazione fondata sulla passione e sull'obbedienza passiva di Eloisa verso Abelardo e Dio; nel secondo è la relazione atemporale dello psicodramma, che si attua fra Alda (la psichiatra) e Alba (la paziente) nello spazio chiuso della seduta psicoanalitica; nel terzo infine, che si svolge nella contemporaneità (una calda estate, a Roma, al Testaccio), è la relazione fra il reale e l'immaginario, e non a caso infatti la protagonista, Bruna, sembra a tutta prima essere una prostituta ma si rivela poi essere un'attrice.
I tre drammi, uniti tematicamente ma singolarmente autonomi, non trovano perciò la loro ragion d'essere nella finalità della messinscena, ma nella teatralizzazione della parola, che si fa luogo in cui l'essere umano si appropria - anche scambiandolo o rubandolo - di un ruolo; ed è perciò una parola "alta", anche dove il linguaggio si fa grezzo e scurrile, parola di poesia, perché alto è il valore semantico ed enunciativo che Bianca Maria Frabotta le attribuisce.
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