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Anno edizione: 2012
Anno edizione: 2008
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Rispetto ad altri paesi europei, con i quali vorremmo poterci confrontare, l'Italia è ancora un paese in cui solo raramente (e spesso senza l'informazione necessaria a giustificare toni solitamente allarmistici), lo stato delle nostre università viene presentato come problema all'attenzione dell'opinione pubblica. Ancora più di rado si confrontano pubblicamente posizioni alternative sulle funzioni che le università dovrebbero svolgere nella nascente "società della conoscenza". Senza dubbio, il riconoscimento sociale dell'istituzione universitaria come bene pubblico non è favorito dalla reticenza delle nostre forze politiche a farsi carico di responsabilità finanziarie che dovrebbero essere onorate non solo investendo di più nelle università, ma anche investendo in modo selettivo; ma è anche ostacolato da un certo senso comune che percepisce le università come "torri d'avorio", fortezze isolate e resistenti al cambiamento, rette da logiche proprie, per lo più incomprensibili ai non "addetti ai lavori".
Fortunatamente, in anni recenti, si sta lavorando seriamente in ambito accademico per rimediare alla disinformazione che ha accompagnato anche l'introduzione della riforma universitaria (decreto ministeriale 509/1999), una riforma imposta dall'alto per adeguarsi a un trend europeo (il cosiddetto "Bologna Process"). Questo libro offre a un pubblico vasto, non solo di esperti del settore, una serie di contributi su alcuni temi chiave per comprendere il processo di trasformazione che ha investito le nostre università, a seguito della riorganizzazione curricolare nota come "3+2" e dell'introduzione del sistema dei crediti. Accanto a dettagliate ricostruzioni cronologiche delle riforme precedenti, a un'analisi della "riforma della riforma" (il decreto ministeriale 270/2004) e dei problemi legati all'organizzazione curricolare e didattica, a un confronto quantitativo tra i tassi e i tempi di occupazione post-lauream prima e dopo la riforma, il lettore troverà anche saggi che mirano a descrivere e a discutere criticamente il sistema di governance interno agli atenei, la cultura accademica, i rapporti tra università, imprese e altri enti pubblici e privati di ricerca.
La struttura stessa del volume, in cui ogni saggio affronta un tema, prima in modo analitico e descrittivo, poi in modo critico ed eventualmente propositivo, rispecchia la complessità delle funzioni e dei rapporti che un'istituzione sui generis quale è l'università deve adempiere e intrattenere con l'ambiente sociale ed economico che la circonda. Inoltre, questo lavoro offre al lettore una griglia concettuale utile per interpretare il cambiamento in atto e per comprenderne le possibili direzioni. La costellazione di concetti che gli autori impiegano, opportunamente depurata di inutili tecnicismi, rivela anche la loro attenzione alla letteratura specialistica straniera e alla dimensione comparativa internazionale, indispensabile per valutare lo stato delle università italiane e per proporre l'adozione selettiva di "buone pratiche" altrui.
Benché gli autori riconoscano che un bilancio complessivo dei risultati ottenuti dalla riforma sia ancora alquanto prematuro, le analisi svolte mettono in luce alcuni primi successi: la riduzione dell'età media in cui gli studenti conseguono il titolo di laurea (24 anni per la laurea triennale contro i 28 anni per la laurea quadriennale pre-riforma) e la parziale diminuzione del tasso di drop out (abbandono), resa possibile dall'introduzione di nuove pratiche di counseling, tutorship e mentoring. Ciononostante, viene espressa all'unisono la speranza che la rivoluzione messa in moto dal processo di Bologna non si arresti in Italia a una proliferazione dei corsi di studio, che pure intende rispondere alla maggiore varietà dei talenti e degli interessi degli studenti, così come alla crescente esigenza di specializzazione imposta dalla struttura del mercato del lavoro (una proliferazione che, secondo i dati riportati nel volume, è stata più contenuta di quanto di solito si sostiene). Si auspica infatti che la diversificazione dei curricola conduca nel tempo a una loro differenziazione in senso funzionale (triennio professionalizzante e/o propedeutico al biennio magistrale, biennio specialistico), con barriere meritocratiche all'accesso (soprattutto all'ingresso della laurea specialistica). Si spera inoltre che le trasformazioni prodotte dalla riforma facciano risaltare più chiaramente l'arretratezza di un sistema di governance che non ha ancora assorbito quella cultura manageriale che si è progressivamente diffusa in altri paesi, con l'effetto positivo di aumentare l'efficacia decisionale e l'efficienza amministrativa degli atenei.
Tra le opere, soprattutto non specialistiche, recentemente pubblicate sul tema, alcune delle quali si riducono a sterili invettive contro un processo di cambiamento che non può e nemmeno deve essere arrestato, questo libro si distingue per la fermezza con cui rifiuta di abbandonarsi a rimembranze nostalgiche di un'epoca in cui l'università era d'élite e per il coraggio con cui difende allo stesso tempo due principi spesso considerati, a torto, mutualmente esclusivi: il principio dell'uguaglianza di opportunità, su cui si fonda l'università di massa, e il principio meritocratico, che ammette invece l'esistenza di differenze nelle capacità (degli studenti, dei docenti e degli atenei nel loro complesso). Contro alcuni pregiudizi ideologici ben radicati sia nella cultura accademica sia in quella politica, e che ancora oggi si frappongono a una seria applicazione del principio meritocratico in ambito formativo, si ribadisce che la cultura del merito è portatrice di una specifica cultura dell'eguaglianza, perché nega valore ai privilegi ascritti (per nascita o censo), premiando invece i meriti acquisiti dall'individuo: una selezione, quindi, che si applica solo dopo che il principio delle pari opportunità di accesso è già stato rispettato.
Mi sento dunque di consigliare la lettura di questo libro non solo a chi, per pura curiosità intellettuale, desideri essere informato sullo stato delle nostre università dopo l'introduzione della riforma, ma anche a chi, mosso da responsabilità civica, senta il diritto e il dovere di formarsi un'opinione e di partecipare a un dibattito pubblico sulle funzioni di un'istituzione che oggi è sottoposta alla sfida di aprirsi a nuove e diverse esigenze sociali.
A essere in gioco è infatti l'identità di un bene pubblico: l'universitas studiorum, istituzione specializzata nella produzione e nella trasmissione della cultura, non può più permettersi di essere, nella società della conoscenza, una "torre d'avorio". Stato, mercato e società ne assediano le mura con le loro richieste, spesso conflittuali, e tentano di conquistarla dall'interno, attraverso modelli organizzativi (burocratico/manageriale) di difficile conciliazione. Prevedere in quale direzione avverrà il cambiamento è estremamente arduo, come mostra anche uno studio condotto dal Cheps dell'Università di Twente (2002), citato nelle conclusioni da Moscati e Vaira. Se a prevalere sarà la logica burocratica-pubblica, quella del mercato o gli scenari a rete, dipenderà forse, oltre che dalle condizioni economiche generali, dal modo in cui le università italiane sapranno gestire la propria autonomia, impegnandosi a essere protagoniste del cambiamento, invece di subirlo passivamente. Fiammetta Corradi
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