Immagino che sia una scelta approvata da lui stesso, la foto di copertina, con quel bel volto antico di Valli segnato parrebbe dagli scavi interni delle sue tante letture raminghe più che da questa sua straordinaria vita distesa nelle pieghe del tempo. E mi piace pensarlo, a me come a tutti coloro che da sempre lo conoscono, perché Bernardo è egli stesso come una storia aperta, che si racconta pianamente, con una consapevolezza che mai ha bisogno delle compiacenze cui i protagonisti del mondo mediale si piegano con resistenze flebili. Questo libro immenso, mille pagine che hanno l'intensità d'una "recherche" tuttora in corso, non ricompone soltanto un affascinante atlante storico delle vite, e delle lotte, e delle speranze deluse, dei popoli del nostro mondo in un tempo lungo quanto cinque generazioni, ma è anche la sorprendente narrazione d'un impegno costante a capire la ragione dei fatti prima ancora, forse, della loro stessa identità. E dico "sorprendente" perché apparirebbe naturale, ovvio, che la solidità di quell'impegno debba essere alla pari che per molti l'ombra visibile di una costruzione progressiva, un'evoluzione quasi darwiniana della lettura della realtà, e non invece, come si vede fin dai primi lavori d'inviato sul campo, una categoria che innerva l'identità d'ogni suo reportage. Ho incontrato Bernardo sulle strade del nostro lavoro comune più di trent'anni fa, e in questo lungo tempo quelle strade fatte di guerre, di rivoluzioni, di lotte aspre per una libertà che spesso si rivelava una utopia fallita, ci hanno trovato in molte cronache compagni occasionali di giorni intensi, anche drammatici. Però mai Valli è apparso preso dal viluppo di quei fatti, mai davvero lo si è visto turbato dalle emozioni che comunque travolgono il dovuto distanziamento del reporter da quanto egli sta registrando. Ora, in queste riflessioni su chi è compagno di giorni comuni, il rischio è, ovviamente, di sovrapporre al lavoro l'identità, la persona al reporter. Ma è un rischio che si può affrontare con spirito sereno, quando lo si misura su una biografia comunque vagliata da una contiguità rapsodica, non sempre fianco a fianco ma più e più volte sotto la pressione coinvolgente di storie segnate da una turbolenza semantica che intrecciava strettamente politica, ideologie, culture ma, anche, sentimenti, emozioni, sensibilità. Il giornalismo sta vivendo tempi amari. Sono tempi nei quali la transizione imposta dall'intrusione delle tecnologie elettroniche non è soltanto un processo di cambiamento di metodiche d'intervento o di forme nuove della rappresentazione del reale ma si conforma, ormai, come un'autentica mutazione genetica, che mette in crisi le identità stesse la struttura e la natura di questo lavoro. Il "quantum" si va sostituendo al "quale", come valore di riferimento nella costruzione della conoscenza, e l'indifferenza con cui "vero" e "verosimile" vengono accolti da un'opinione pubblica che perde l'identificazione che Lippman le disegnò in un tempo che oggi appare preistoria, e si offre apaticamente ad accettare un ruolo segnato dall'obbligo del consumo passivo più che dal dovere dell'autonomia di giudizio, quella indifferenza mina nel profondo le ragioni che hanno fatto del giornalismo uno degli strumenti essenziali per una veridica autorappresentazione della società. Il "quale", la qualità del lavoro di interpretazione e narrazione degli avvenimenti, grandi o piccoli che siano, cronache quotidiane o reportage di forte impegno investigativo, dovrebbe esser parte essenziale del costrutto nel quale il giornalismo si produce. Sappiamo che non sempre questo avviene, per molte ragioni, sociali e culturali. Oggi è comunque una progettualità in crisi, anzi un processo in estinzione: la sua storia e la sua traiettoria erano segnate dalla concretezza di un atto testimoniale che faceva del giornalista l'interprete credibile d'ogni rappresentazione della realtà; tutto ciò, oggi, non conta più. E poiché il "virtuale" va acquistando sempre più considerazione sociale, e l'intermediazione elettronica si offre come supplenza d'un rapporto diretto con la realtà sempre meno valorizzato, queste straordinarie mille pagine di Valli possono anche essere considerate come un prezioso documento d'una cultura e d'una civiltà pompeiane, soffocate dalla ricaduta d'un pulviscolo informativo che il "tempo puntillistico" di Bauman fissa nei possibili risvolti d'una inavvertita deriva orwelliana (che è certamente un ossimoro, ma sta comunque nel fondo oscuro delle relazioni tra potere e informazione). Nella raccolta curata da Franco Contorbia con sensibilità profonda, quasi complice verrebbe da dire, e accompagnata da un suo rilevante saggio critico, la scelta del titolo dà ragione allo spirito critico con il quale Bernardo esercita il suo lavoro, piegato sulla cronaca nel suo farsi quotidiano ma sostenuto da una consapevolezza storica che offre sempre al lettore l'orizzonte della problematicità d'una ricognizione comunque interpretativa. M. C.
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