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recensioni di Scatolero, D. L'Indice del 1999, n. 12
Leggendo i testi raccolti da Marcello Flores in questa documentata ricostruzione dei lavori della Truth and Reconciliation Commission (Trc) voluta da Nelson Mandela per affrontare i processi di riparazione del dopo-apartheid in Sudafrica, si può avere quasi l'impressione di un libro schiacciato dall'evento che ricostruisce, tale è la straordinarietà dei fatti raccontati. Ma il pregio del testo e la sua importanza stanno proprio nel dare fisionomia concreta a un processo di cui in Italia si aveva notizia soltanto attraverso resoconti giornalistici, nell'offrirne dettagli ed elementi costitutivi, dando certezza di ciò che è accaduto. E bisogna dire che il fatto che una tale esperienza sia stata possibile comunica un senso di speranza civile che forse la storia recente - e non solo sudafricana - si era incaricata di sbiadire e corrodere.
Ogni passaggio del libro apre a riflessioni di ampio respiro: una capacità del discorso di allargarsi per ogni dove che trova forse la sua massima espressione nella prefazione dell'arcivescovo Tutu, ma che caratterizza anche la lunga e preziosa introduzione di Marcello Flores che, attraverso temi di spessore inaudito, suggerisce, senza imporli, numerosi percorsi di esplorazione e dibattito. Né la presentazione del libro, tuttavia, né la ricostruzione dell'evento sudafricano sono di grande aiuto nella ricerca di un senso più generale da conferire all'esperienza di cui si parla, e questo forse costituisce un limite del testo, davanti a una storia capace di parlare con la stessa intensità all'intelligenza e alle emozioni. Sfogliando queste pagine, infatti, si è messi continuamente a confronto con l'orizzonte dei pensieri e dei sentimenti, con la sfera del vissuto soggettivo, e si è trascinati in una strana terra di mezzo fra il capire e il sentire, dove può capitare di provare una forte inquietudine. Davanti alla narrazione delle vittime di violenza, il lettore viene messo a dura prova, sospeso fra lo sforzo di chi narra la sua tragedia per farsi capire e il dolore privato che da quello sforzo emana.
E del resto lo stesso evento che questo libro racconta - il lavoro della Commissione fra l'aprile '96 e il dicembre '98 con l'ascolto di 21.000 casi e l'accoglimento di 7000 domande di amnistia - altro non è che una lunga narrazione, una successione di racconti resi da vittime e carnefici di una stagione di violenza, sangue, repressione ed esclusione; racconti di uomini e donne posti l'uno di fronte all'altro, in pubblico; racconti di fatti ma anche, inevitabilmente, di emozioni, percezioni, sentimenti.
Tanto gli autori del testo quanto gli attori della vicenda, in sostanza, compiono l'esperienza descritta dall'espressione "narrare narrandosi", raccontare la Storia con il racconto delle proprie storie. Ed è proprio questa particolare posizione a farli interpreti di un evento e di un momento finora unici e straordinari. La vicenda che raccontano investe i più alti valori collettivi - verità, giustizia, memoria, civiltà, perdono, democrazia - ma lo fa chinandosi a guardare le singole ferite, le sofferenze, i dolori, le devastazioni interiori provocate negli individui. È un viaggio nell'intimità alla ricerca di una cifra inedita della giustizia che ancora non può trovare punti di riferimento definitivi o sicuri approdi, un percorso attraverso l'incertezza e il dubbio su cui l'unica consapevolezza acquisita è che sarà un cammino lungo, faticoso e privo di garanzie, come accade alla maggior parte delle umane vicende.
È per questo, forse, che appare fin troppo insistente il continuo richiamo, lungo questo viaggio nella memoria individuale, alla meta dichiarata della riconciliazione, data per raggiungibile e attuabile. Tale meta appare invece, a guardare freddamente, ancor più inattingibile dell'altro obiettivo indicato dal nome stesso della Commissione: la verità sugli eventi storici. Ben difficile è misurare l'eventuale avvenuta riconciliazione di genti divise dall'odio e dalla violenza, non foss'altro che per il fatto che tale misurazione concerne non soltanto i comportamenti e i gesti, ma anche i moti dell'animo, e spesso i meno confessabili e i meno trasparenti. E non è rischio da poco, in contesti così delicati, il volere a tutti i costi prefigurare l'obiettivo, con la tentazione di "mettere ogni cosa a suo posto". Nel disordine del dopo-scontro la voglia di un nuovo ordine è forte e, a volte, incontrollabile, e nascono facili illusioni. Ma quale può essere il soggetto ordinatore? Chi sarà a mettere le cose "a posto"? I processi di ricostruzione dopo un conflitto seguono dinamiche imprevedibili ed è evidente che un eccesso di ambizione nel voler rimettere insieme un tessuto lacerato porta con sé tentazioni pericolose difficilmente governabili, anche con le migliori intenzioni.
Proprio sotto questo aspetto sembra fondamentale il metodo prudente che la Commissione ha voluto darsi. È ragionevole pensare che in situazioni come quella sudafricana una forma di autentica riconciliazione civile sia troppo distante per parlarne seriamente e per dedicare ad essa i lavori di un tribunale. L'operazione concreta e senza precedenti del cosiddetto "Tribunale Mandela" mi pare, invece, quella di mirare a ristabilire una possibilità perduta di coabitazione fra i nemici in conflitto. Obiettivo di basso profilo, certo, ma assolutamente preliminare a quelli successivi della convivenza (non solo condivisione del medesimo territorio, ma anche del medesimo progetto) e della riconciliazione.
Ciò che la storia dei conflitti armati recenti sembra insegnare è che dopo la guerra non c'è la pace, ma l'arresto dello scontro: sarà una successiva, lunga opera di ripristino della vita e delle sue consuetudini a permettere l'inverarsi della pace. Si rialzano muri crollati, si riattiva un'organizzazione sociale e civile caduta, si favorisce la riparazione dei danni fisici, morali, psicologici inferti alle vittime del conflitto. Non certo nell'illusione di guarire miracolosamente dal contagio violento, ma con gli obiettivi più modesti a cui spesso aspira la diplomazia quando tenta di ristabilire condizioni di coabitazione e di accesso comune ai diritti e ai servizi, come nel caso della ricostruzione in ex Jugoslavia.
E proprio l'esempio jugoslavo, con i suoi limiti e con gli evidenti insuccessi, suggerisce la chiave per individuare un elemento decisivo e troppo spesso trascurato dei processi di ricostruzione e riconciliazione: l'attenzione al vissuto delle vittime. L'elemento decisivo, cioè, che caratterizza invece ogni passo della Commissione sudafricana. Non che le vittime, beninteso, siano ignorate nei processi di ricostruzione post-conflittuale fin qui noti: il fatto è che esse vengono quasi sempre trattate come un problema da risolvere, vanno in scena ora come strumenti processuali utili per incastrare i carnefici, ora come "parti" in processi risarcitori, ora come rappresentanze simboliche o come entità culturali e storiche. Quando non, infine, come casi sociali, sanitari o psichiatrici. Raramente le vittime di un delitto, sia esso collettivo o individuale, vengono trattate, nei processi ordinari della giustizia, come presenze umane intere.
È proprio questo diverso sguardo nei confronti delle vittime a costituire la più significativa rivoluzione di prospettiva attuata dalla Commissione. È la loro verità, qui, a diventare motore dell'azione processuale, e prioritaria diventa l'esigenza di dare risposta al loro bisogno di risarcimento e consolazione. Alle vittime il procedimento sudafricano concede ciò di cui da sempre sono private, e cioè uno spazio per narrare non solo dati e vicende, ma soprattutto se stesse, con le emozioni e le contraddizioni che un racconto in soggettiva comporta, e senza subire l'imposizione dello stile narrativo proprio dell'interlocutore, come invece avviene nei casi ordinari di riparazione, in cui è decisamente condizionante lo stile di volta in volta processuale, medico, psichiatrico di colui che interroga. Il racconto della vittima non è qui strumentale - a un'indagine o a un giudizio - ma è detto, semplicemente, per essere accolto con empatia dagli ascoltatori (compreso il carnefice), senza che siano pretesi atti e comportamenti coerenti. Di tale racconto la collettività si fa carico con tutto il suo peso emotivo, in una sorta di con-passione pubblica che viene a fungere da antidoto a quell'atteggiamento totalizzante indotto nella vittima dal risentimento, vissuto come rabbia globale contro il mondo intero. Un atteggiamento molto noto agli psicologi che si occupano di questi casi e che rende le persone travolte da eventi violenti inavvicinabili e talora anche insopportabili e socialmente inaffidabili e che, sul lungo periodo, può portare a comportamenti autodistruttivi (si pensi ai numerosissimi casi di suicidio a lunga distanza dagli avvenimenti subiti).
Non sarà certo questa forma di giustizia secondo narrazione a creare un nuovo ordine civile, essa però crea le condizioni per il ristabilimento da parte delle vittime di violenza di un legame sociale, di una rete relazionale senza la quale nessun'altra ricostruzione è possibile. Non si tratta di psicoanalisi o di confessione, e nemmeno di giustizia in senso legale, ma più semplicemente di un'istanza di riconoscimento dell'umanità di persone che hanno subito l'azione distruttiva di altre persone.
Il primo danno da riparare dopo un conflitto riguarda la comunicazione fra esseri umani: la Commissione Mandela parte da qui, consapevole del fatto che nessuno può farsi carico di quei processi di riparazione in vece dei soggetti che vi sono implicati (la vittima, il carnefice, i testimoni). Essa dunque non si sostituisce agli attori del conflitto, ma al contrario restituisce loro la responsabilità della ricostruzione comunicativa. L'aver scelto l'umano come riferimento ultimo, nella sua incompiutezza e incoerenza è il punto di forza del metodo inaugurato dalla Commissione (ma già ben noto nelle esperienze di riconciliazione di microconflitti metropolitani): i processi che essa avvia, per quanto lunghi e tortuosi possano essere, risultano saldamente ancorati alla realtà, in un'accezione più complessa di quella cara alla diplomazia tradizionale, e non rimandati ai mondi della finzione e ai loro "giochi di risoluzione" pur maggiormente rapidi (soluzione giudiziaria, morale, politica e così via).
C'è in questa scelta non soltanto la saggezza dei soggetti che l'hanno presa, ma una cultura che viene da lontano. Il momento della ricostruzione è ovunque crocevia di concezioni e culture che attraversano la realtà devastata: in questo caso è all'opera un paradigma di antiche concezioni africane del diritto, che tendono a riconciliare le parti e a restaurare l'armonia della comunità. Insieme ad esso lavorano anche la cultura cristiana con il suo sacramento della penitenza e molta di quella recente cultura dei diritti umani che informa (almeno nel dettato formale) il sistema contemporaneo delle relazioni internazionali. Questo tipo di sincretismo culturale segna il cammino della Commissione in direzione di una pratica di ricostruzione centrata sulla persona, una pratica che dà all'evento sudafricano la portata di un possibile punto di svolta nella storia civile.
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