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Che bello, un nuovo cantastorie yiddish! Ah, non è nuovo? Macché, è antichissimo, è bello ugualmente. Storielle? No, perché attraverso esse si vede più di quanto noi vediamo. C’è l’Europa orientale, un picaresco ed epico viaggio di formazione, ci sono il sorriso e un pizzico d’amarezza, due protagonisti strampalati che, inevitabilmente, fanno pensare a Don Chisciotte e Sancio Panza. Sembra incredibile, ma quasi un secolo e mezzo è stato anche questo romanzo ad aprire una via: I viaggi di Beniamino terzo (212 pagine, 19 euro), ripescato dalle Edizioni Dehoniane Bologna, che hanno rilevato Marietti, casa che lo aveva pubblicato negli anni Ottanta, con la stessa traduzione di Daniela Leoni.
Il bielorusso Mendele Moicher Sfurim (nome d’arte di Sholem Yankev Abramowitsch) è l’autore, ovvero uno dei padri fondatori della letteratura yiddish (come spiega Claudio Magris nella sua raffinata ed esaustiva presentazione), con un’eredità arrivata ai nostri giorni, se non linguistica (quella lingua fu assassinata dai nazisti, non va dimenticato, oggi più che mai), certamente di temi e topoi. Forse declinata via via più malinconicamente, la lezione di Mendele Moicher Sfurim, è arrivata in pieno Novecento e, in fondo, ai giorni nostri. I viaggi di Beniamino terzo ha anche un intento per così dire pedagogico, non si limita a raccontare belle storie con prosa più o meno realistica da un mondo scomparso (allora, oltretutto, non era ancora scomparso, quindi i retrogusti di rimpianto non ci sono…) ed esotico: vuole smascherare ignoranza, pseudo saggezza, conservatorismo e superstizione del mondo angusto di certi shtetl, e lo fa in modo epico ed umoristico al tempo stesso.
Un viaggio paradossale e farsesco, dunque, quello del poverissimo Beniamino e del suo “scudiero” Senderl, che si lasciano alle spalle la cittadina di Tuneyadevka e vogliono simulare le gesta ispirategli da due viaggiatori ebrei medioevali (una parodia di Beniamino da Tudela) e in particolare trovare le tribù ebraiche scomparse attraversando il fiume Sambatyon. Anche il loro creatore Mendele Moicher Sfurim aveva avuto una vita errabonda. E oscillava tra una sincera compassione per le sofferenze ebraiche (già sotto la dominazione zarista, con una breve parentesi felice, limitata alla vita e alle riforme di Alessandro II), un tagliente umorismo e una critica feroce a meschinità e parassitismo di certi abitanti dei villaggi dell’Europa dell’est. Iniziò tutto così. Poi fu un fiorire di letteratura capace – con distinguo – di fare la differenza ancora nel presente, il diluvio della letteratura yiddish.
Recensione di Micol Treves
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