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recensione di Merola, N., L'Indice 1995, n. 1
Con un conflitto, una "controversia", una vischiosa e necessaria implicazione, ma anche un contrastato transito e una metamorfosi faticosa, si diceva fin dai titoli alle prese Mario Luzi ("Nel magma", "Dal fondo delle campagne", "Su fondamenti invisibili", "Al fuoco della controversia", e poi "Per il battesimo dei nostri frammenti", "Frasi e incisi di un canto salutare"), da quando, nel 1963, aveva voltato le spalle risolutamente, senza abiure e senza ripensamenti, a un lusinghiero stato di servizio da capofila dell'ermetismo e a un volume, non liquidatorio ma certo conclusivo, con tutta la sua produzione poetica precedente: "Il giusto della vita". Obbedendo a una sollecitazione che gli veniva da più parti, aveva intrapreso una discesa dalla 'turris eburnea' di un proverbiale, schifiltoso isolamento, fin qui, giù nel mondo, a contatto con i problemi degli uomini del nostro tempo. Ci guarderemmo bene tuttavia dall'attribuire motivazioni politiche, e il senso di una conversione opportunistica, a una risposta, ancora approssimativa e piena di contraddizioni eppure pertinentissima, all'esigenza tipica del Novecento di cercare la poesia fuori della poesia. Prescindendo dall'interesse vitale e dall'urgenza che agli occhi di Luzi rivestiva una simile ricerca, non si capirebbe perché, da allora in poi, le sue uscite si siano intensificate, in concomitanza per giunta con l'adozione del verso lungo, mentre le poesie si caratterizzavano estrinsecamente per l'incalzare degli interrogativi ai quali spesso si riducevano e per l'ostentata instabilità e l'andamento prosastico a cui, per di fare poesia con discorsi che parlavano d'altro e a tutt'altro sembravano intesi, si era rassegnato volentieri l'intransigente tutore del rifiuto ermetico di ogni effusione comunicativa. Salvo errori o omissioni, con il "Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini" (un titolo riassuntivo dei precedenti ancorché fuorviante, in quanto promette uno svolgimento narrativo che non ci sarà), siamo felicemente arrivati al tredicesimo volume, non contando n‚ le antologie, n‚ le raccolte complessive, n‚ le sei opere teatrali pure in versi. Guardando anzi alla situazione ripetutamente messa in scena da Luzi, e già definita purgatoriale, in cui si sono alternati una poesia rotta a tutte le astuzie della prosa illustre più moderna, ma frenata dal disincanto, e brani di conversazione, o indifferentemente minime aperture liriche, in una specie di vano assedio della dimensione nella quale proprio attraverso quella strada impervia e con tutto quel bagaglio superfluo si voleva entrare, si direbbe che la musa di Luzi sia stata l'ansia. E il poeta ora, quasi chiosando: "Durissimo silenzio /... / ma colmato / da nuvole, da pietre, / da alberi, animali".
Estraendo il "Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini" dalla generosa vena della sua più tarda e alta ispirazione e da un corpus imponente, irriducibile a qualsiasi semplificazione, Mario Luzi ci offre l'opera che forse meglio lo rappresenta, proprio perché coraggiosamente punta alle radici di quel conflitto e di quell'ansia, nel momento in cui smette di annunciarli. O perché gli appassionanti diversivi della vita lo hanno ormai lasciato a tu per tu con la sua suprema ossessione in un ultimo disperato duetto, che disloca sulla pagina in piena luce i punti di fuga precedentemente occultati e ora quasi restituiti alla loro purezza originaria. Circa l'oggetto di quest'ansia, prima ancora di aprire il libro e nonostante ogni depistaggio, si intuisce quanto basta, sia che il fervore creativo mirasse a moltiplicare approssimazioni incalzanti e illusorie a un miraggio o a reiterare assalti contro la resistenza di un ostacolo, sia che raccogliesse prove della propria beatificazione poetica, se non 'in partibus infidelium', senza più la rete di protezione della poesia mascherata da poesia. E non è stato necessario aspettare la conferma di oggi ("Un attimo di universa compresenza, / di totale evidenza -/ entrano le cose / nel pensiero che le pensa, entrano / nel nome che le nomina, / sfolgora la miracolosa coincidenza"), per constatare come l'itinerario precedente, dall'oreficeria ermetica all'ideale transverbalità di una poesia di situazione, sia sempre rimasto sotto le insegne appunto di un'ambizione assoluta e di una ricerca linguistica incontentabile: quella infallibilmente orientata sull'evidenza di una comunicazione che, non potendo essere naturale, rinnega le convenzioni e trova dentro la lingua il modo di uscirne. Solo ora però apprendiamo che, alle varie stazioni della sua traversata del "magma" e al viaggio nel suo complesso, il poeta ha conferito il valore di una prova da superare: bisognava che alla poesia giungesse, attraverso una vera e propria metamorfosi, l'espressione di una necessità del tutto svincolata dalla letteratura e dalle sue ragioni, fino a mortificare la più lucida delle intelligenze critiche e a simulare la scrittura automatica. Siamo in presenza del prodigio nel quale si è specializzata la poesia moderna e che non ha smesso di rappresentare anche una frustrazione angosciosa, una lotta contro il tempo e uno scontro doloroso con i propri limiti: "la sua arte / che non aveva storia - divorata / dalla beltà, assetata di grazia ". Non aveva mancato del resto lo stesso Luzi, nella sua poesia o in dichiarazioni di poetica, di ribellarsi contro il rischio di rimanere chiuso in una formula critica e persino in un'identità definita e debitore nei loro confronti. Il rifiuto ansioso di ogni definizione da parte del poeta, e forse di qualsiasi poeta, cerca di scongiurare l'imposizione di un limite, il doloroso ridimensionamento a poeta tra poeti di chi, per non accontentarsi di niente di meno di una poesia che riassuma e cancelli tutte le altre, deve identificarsi 'tout court' con la Poesia. Così nel "Viaggio" non ci sorprendiamo di fronte alla resa, solo perché comporta un ulteriore rilancio: "inchiodami alla croce / della mia identità / così come fu fatto / per te e per la tua / da cui prende dolore / e senso ogni crocifissione / ciascuno ai bracci della sua persona". Senza revocare in dubbio la sincerità delle sue professioni di fede, e anzi sottolineando il ruolo della fede in una poesia tanto più ambiziosa quanto meno confortata da certezze, non possiamo evitare di supporre che ora Luzi non riuscirebbe a pensare alla poesia in termini diversi da quelli della teologia e che addirittura non concepirebbe neanche un esercizio della poesia che non fosse un contemporaneo esercizio della santità: "In che paradiso di salute, / di luce e libertà, / arte, per incantesimo mi scorti?".
Il "Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini" celebra con la più tormentata versificazione, ormai decantata dentro la soluzione della prosa, e quindi audace come all'origine della poesia di Luzi (basta un'occhiata al lessico, più settoriale che peregrino) ma senza più alcuna garanzia di riuscita, il trionfo del poeta, cioè la sua assunzione in paradiso. "È forse il paradiso / questo? oppure, luminosa insidia, / un nostro oscuro / ab origine, mai vinto sorriso?". Non inganni la forma dubitativa. Il libro, che solo in questo utilizza la traccia di viaggio, è costruito come un crescendo, fino all'ineffabile visione conclusiva ("È, l'essere. È"), e non manca di alludere apertamente al Dante che insegue e prolunga, ansiosamente preoccupandosi di lanciare messaggi per una volta inequivocabili. Al virtuosismo del poeta, che riesce a passare per la cruna stretta della poesia insieme con il reale e il quotidiano di cui è prigioniero ("Oh non lo mortifica, / anzi lo riconforta / la promiscua comunanza"), corrispondono sì i miracoli della fede, che gli permettono di vedere la propria salvezza di uomo e il proprio trionfo di artista, ma più arditamente si appoggia la fede medesima. Non l'arte, ma la grazia artistica dalla quale Luzi si sente visitato è la prova dell'esistenza di Dio. Non c'è bisogno di aggiungere che la voce del poeta mai alta come in questo libro, diventa anche stridula per l'enormità dello sforzo al quale si sottopone ("Dentro la lingua avita, / fin dove, / fino a quale primo seme / della balbuzie umana?") o per l'intrinseca povertà del repertorio narcisistico compatibile con la poesia e il troppo frequente ricorso ai toni esclamativi: "Irridono la sua sublimità / e quella dei maggiori". Sarebbe strano se, nel paradiso dei poeti, non giungessero echi di miserie, spropositate suscettibilità, odi e invidie, che tanto sono importanti nel loro esilio terreno.
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