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Anno edizione: 2011
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Sorta di diario in versi di diabolica bellezza, un immergersi nell'abisso della mente e dell'anima di uno scrittore senza pari, dentro le angosce esistenziali di un uomo complesso e tormentato. In queste poesie amarissime c'e' odio, disperazione, soffocamento, malinconia, sarcasmo, l'amore dimenticato, un urlo terrificante che maledice un dio pazzo e malvagio, che come nel racconto "In treno", tratto dalla raccolta Racconti impossibili, alle continue domande dell'Arcangelo Gabriele a Dio, circa i suoi metodi e criteri nel somministrare la morte agli uomini, Dio, alla fine spazientito contro il suo Arcangelo, stizzito risponde: Non lo so, non lo so! Magari a caso....Questo e' un libro sconsigliato ai pessimisti estremi, ma consigliatissimo agli esteti della parola scritta che si trasmuta in sublime componimento poetico, poesie al fiele che ti masticano dall'interno e artigliano il cuore, come una discesa agli inferi nei piu' tenebrosi anfratti di te stesso.
Qualsiasi sua opera si sfogli, è la sublimazione del fuoco che dovrebbe albergare in ogni animo poetico, dannato, condannato, lacerato per poi fluire nelle parole, il suono delle parole, la musicalità delle parole. Landolfi appartiene a quelle letture confessioni, alle letture che devono spiegare la colpa dell'essere nati, capire perché si scelgono alcune distruzioni al posto di altre e guardare la sanità della vita come un agognata speranza vana. Chi non si è lasciato rapire dal mare di pietre lunari che ha scritto, in quella luce che fa muovere le ombre come paesaggi del proprio animo, come desideri repressi che la scrittura salva? I suoi diari sono immacolati e il ritratto che ne viene fuori sono un mirabile squarcio di una società che è stata sempre lontana dal suo genio. Queste poesie sono classicheggianti, il versificare è legato a metriche straniere, esprimono uno smarrimento italiano, non della società, ma della tradizione poetica che ci ha accompagnato. Le immagini che vengono fuori sono di un nostos che rimpiange lo stile assente nei letterati suoi coevi. Le sue costruzioni verbali auliche e solenni sono castrate dall'impossibilità di capire e di essere capiti, "l'universo increato" degli uomini brancola nelle tenebre dell'essere creature, sorte uguale a quella del sole che irradia questo destino. Da leggere assolutamente.
Recensioni
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"La poesia, la sola / Libertà che è concessa al figlio d'uomo, / non mi fu amica: come farmi forte / e come vincere lo stuolo / delle fetide arpie? / Così ho vissuto: / di servaggio in servaggio precipitato, / fino alla soglia della morte". Questa poesia a metà libro è una delle tante, ma sicuramente tra le più indicative, per abbozzare un'indagine retrospettiva sul perché, dopo una fortunata e longeva carriera di narratore, Tommaso Landolfi decide di chiudere il sipario sul suo desco di scrittore con due raccolte di liriche. La poesia non gli è amica, ci dice, ma pure vi si appiglia, elevandola a unica, sola libertà.
Le raccolte in questione sono Viola di morte del 1972 e Il tradimento del 1977. La prima delle quali è ora ristampata da Adelphi: novità lietissima per i landolfiani già che la princeps vallecchiana è introvabile e chi scrive queste note può testimoniare che in Piemonte, per esempio, ce n'è un solo esemplare, presso la biblioteca civica di Novi Ligure. Non spendiamo manco un minuto a cercare di incasellare quest'opera in uno dei micro contenitori di genere, il Landolfi fantastico e dionisiaco o il cantore dell'intimità dei suoi lunghi diari, escludendo ovviamente il Landolfi teatrale, e questo perché la critica avveduta ormai respinge la bi o tripartizione dei suoi scritti e preferendo piuttosto racchiudere il tutto in un opus continuum. E Viola di morte è certamente un sudato bilancio di quella continuità espletata nei temi e nello stile e nelle scelte lessicali in particolare. Mi riferisco all'amore anzitutto, sempre angoscioso nello scrittore campano, tormentato, inarrivabile, quinta essenziale di una "vita distrutta" dove la "passione è orribile" e gli amori appunto feroci, "immiti". Ma anche amore per le sue terre d'origine: è il caso di Sorvello, paese in cui ambientò l'inseguimento della Gurù di Pietra lunare.
Il titolo stesso del libro, ambiguo per rispettare la sua personale tradizione, fa pensare alla vita (in attesa di morte) o forse all'atto del violare, viola la morte (già che lo stupro, dall'esordio del Dialogo dei massimi sistemi in avanti è in Landolfi esercizio salvifico), o per sbizzarrirci potremmo aggiungere un riferimento a uno strumento musicale probabilmente amato dall'autore (in vita discreto pianista), non fosse che per i non pochi riferimenti benigni all'arte delle sette note, per l'autore la più sublime. E questo perché? Anzitutto perché impalpabile, inscavabile, frutto di sensazione, di infatuazione istintive (Landolfi è un romantico a suo modo e tra i suoi padri putati c'è anche il Novalis tradotto con altrettanta perizia rispetto ai russi) e in questo senso specularmente antitetica alla letteratura; a qualsiasi manifestazione di segno, scrittura ch'è fatta dalle parole ("parole vive, ma presto morte") le quali, sempre significando, zavorrate dalla loro ovvietà obbligatoria, ci rendono "schiavi", ché prim'ancora sono schiave esse stesse: "È vana la parola e non ci assiste (
) La parola significa. E ben questa è la sua morte". E allora chi può assistere il cantore dell'impossibilità? Della vita-non vita ("Renitenza alla vita è il mio gran vanto")? Chi può dischiudergli un granello di speme ora che "il crepuscolo si fa insettuccio"? Forse "il dio di Rohrau", altrove "nostro signore di Rohrau", oppure il "gran dio di Salisburgo", rispettivamente Haydn e Mozart.
Il lettore non si faccia confondere dalle prime due poesie dove Landolfi sceglie due fuoripista niente male: una prova d'autore dodicenne, Torna la primavera e la natura, datata 1920 (sic) e un accorato quanto scherzoso distico d'invocazione alle Muse nella figura del padre della nostra lingua: "Oh Dante, Dante! Gronda m. il paradiso". Dalla terza lirica, Bianchi, e non bianchi sì flutti, e non flutti, la sinfonia vera e propria esplode in tutta la sua intensità, dove il gusto della parola insolita o come ebbe a dire Contini recensendo Landolfi del "tartufo lessicale", non manca mai (la pozzanghera è la "troscia"; la "battima", toscanismo, è la battigia) e il vivace d'una poesia a tratti di maniera, irta di enjambement e allitterazioni, cede occasionevole passo all'adagio di brevi strofe d'amore vorticoso, di "cantare uterino", fino all'"Erebo nebbioso" dove finalmente riposeremo in pace.
Intercettare il sentire e non lo stile di Landolfi è forse l'unica via d'uscita per leggere questo libro senza sviluppare nevrosi.
Carlo Pestelli
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