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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1998, n. 2
Forse perché, tra i vari scrittori e artisti della "lost generation*, Robert McAlmon (1896-1956) è uno dei pochi a essersi "perduto" per davvero, e le poesie e i racconti che, negli anni venti, con un po' di fortuna avrebbero potuto farne un autore significativo resistono tuttora ostinatamente alla riscoperta - accademica, editoriale o "underground" che si voglia -, almeno le sue memorie di quel periodo leggendario conservano una loro freschezza inaspettata. Anzi, è difficile pensare a un'autobiografia altrettanto sprezzante, in cui si dice male di quasi ogni "genio" sottomano (forse con l'unica eccezione di William Carlos Williams, "una forza, un'influenza, una direzione, un modo di sentire nella letteratura americana (...) uno dei pochi che riescano a parlare dei problemi della propria anima e a esplorare le tenebre più profonde della vita senza irritarmi o annoiarmi"), e tuttavia priva di petulanza, pura e miracolosamente leggera.
Grazie a un matrimonio di convenienza con la miliardaria inglese Bryher Ellerman - cui serviva un marito di facciata e giramondo, per potersene stare in santa pace con la sua amata H.D. (essa stessa geniale ex fiamma d'un genio anche maggiore, Ezra Pound) -, a Parigi McAlmon aveva più soldi di quasi tutti gli altri espatriati, e non avrebbe potuto spenderli più generosamente: pagando sempre lui da bere, sovvenzionando i bisognosi (a Joyce, 150 dollari al mese nella stretta finale dell'"Ulisse") e, soprattutto, pubblicando nelle sue Contact Editions una quantità di autori variamente irregolari, come l'italoamericano Emanuel Carnevali, la gran dama Gertrude Stein ("The Making of Americans"), o il più illustre degli esordienti, Ernest Hemingway.
Per certi aspetti, la figura di McAlmon può ricordare - in tono senza dubbio minore - quella di Ford Madox Ford, un altro genio di casa a Parigi in quegli anni (e infatti fa le sue buone apparizioni anche in queste pagine), gran scopritore di talenti, impagabile e notoriamente inattendibile memorialista. Perché la verità di un'epoca si conserva soprattutto nell'esagerazione, se non nell'invenzione "tout court", e l'aneddoto tendenzioso spesso rivela quello che alla testimonianza imparziale - e alle verifiche degli storici, e alla collazione dei filologi - sfuggirà inevitabilmente. E qui in "Vita da geni" (come nelle varie "memorie" di Ford), quanto ad aneddoti tendenziosi c'è solo l'imbarazzo della scelta.
Per esempio quando Joyce, a corto di dattilografe disinibite, fra un bicchiere e l'altro aveva chiesto a McAlmon se non glielo batteva lui, lo scandaloso monologo di Molly. "Cinquanta pagine, una bazzecola, certo che gliele batto", decide Robert sul momento. Salvo scoprire poi che, non solo la calligrafia di Joyce era "minuta, difficilissima da decifrare", ma - molto peggio - "il testo era marcato con segni rossi, gialli, blu, viola e verdi che si riferivano a frasi che dovevano essere inserite" dai quattro taccuini che affiancavano il manoscritto principale. "Per circa tre pagine fui molto diligente, al punto da ribattere una pagina per inserire una frase al posto giusto. Dopo di che pensai: 'Molly potrebbe benissimo pensare questo o quello una o due pagine dopo, o non pensarlo affatto', e misi gli inserimenti dove mi capitava. Anni dopo chiesi a Joyce se si era accorto che avevo alterato la mistica disposizione del pensiero di Molly, e lui disse di sì ma si dichiarò d'accordo col mio punto di vista. I pensieri di Molly erano a dir poco irregolari sotto molti aspetti".
Facciamoci pure la tara, a un racconto come questo, e per amor di cronaca non nascondiamoci che - a quanto pare - James Joyce "Vita da geni" l'aveva definito "the office boy's revenge", la vendetta del fattorino... Ma che sollievo, questo tono spigliato e sbrigativo rispetto alle polemiche cavillose che, da una decina d'anni a questa parte, soffocano le riviste letterarie inglesi e americane ogni volta che esce una nuova edizione del sacro testo dell'"Ulisse"!
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