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Anno edizione: 2017
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Indice
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Una serie di saggi e scritti autobiografici di rara profondità. L'autore è più che mai lontano da ogni fondamentalismo culturale, religioso o nazionalista. Non risparmia nessuno ed è particolarmente pungente verso gli intellettuali, troppo spesso complici dei potenti. Le pagine su Cvetaeva, sul blues, e su Joseph Cornell sono tra le più belle del libro.
"A me piacciono le poesie che sono reticenti, che omettono, si interrompono, rimangono aperte". Anche a me. E poi uno che ama Emily Dickinson e Marina Cvetaeva ha tutto il mio amore, a prescindere. Quarantun prose godibilissime compongono questo libro, e qualche poesia (ma in prosa). Soldi spesi bene, sì. Simic parla nella sua mente. La sua scrittura è audace e diretta. Creare la prosa dalle cose e dalle situazioni che osserviamo nella vita di tutti i giorni. Le sue parole toccano la guerra, i pregiudizi, l'amore, la famiglia, il cibo, ecc. Questo libro nutrirà la tua anima. C'erano capitoli che mi piacevano più di altri capitoli anche io lo rileggevo all'istante perché amavo il punto di vista che Simic aveva. Lo consiglierei a coloro che amano le storie brevi, la prosa e il ritmo più lento, ma il materiale stimolante.
Recensioni
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“Il poeta, indipendentemente dal grado di istruzione, età, sesso e preferenze, nel profondo dell’anima è, e rimarrà sempre, un erede spirituale delle tribù primitive […]. È un animista, un feticista che crede nelle forze segrete che sonnecchiano in ogni cosa, ed è convinto che con l’aiuto di parole opportunamente scelte riuscirà a risvegliarle” sicché, non appena inizia a scrivere versi, “l’uniforme del razionalismo” non può che stargli stretta. A questa pagina cui Wislawa Szymborska ha consegnato una delle sue rare formulazioni teoriche sulla natura del poeta, induce a ritornare la lezione stilistica e poetica di Charles Simic. Se lo stile di Simic è contraddistinto da meri objets trouvés, da “pezzetti di lingua” emergenti dallo sfondo di indicibilità che li circonda e ottunde e di cui “la scrittura è sempre una traduzione approssimativa”, la poetica ch’egli con insistenza dichiara di prediligere è intrisa di un’irrequietezza che ama il paradosso, l’impurità, il capriccio del caso: tutto quanto si oppone alla univocità del Logos e alla pretesa di poter attingere, attraverso la poesia, a una verità metafisica.
Come si legge in uno dei primi saggi contenuti nella ricca antologia La vita delle immagini, tradotta con sensibilità da Adriana Bottini, il poeta non è “un metafisico nel buio”, secondo la nota definizione di Wallace Stevens (antonimo vivente di Simic): non vi è ragione per concepire la poesia come un succedaneo della filosofia. Compito della letteratura prima ancora che della poesia, per Simic, deve piuttosto essere quello – ha scritto nella postfazione a Hotel Insonnia (Adelphi 2002) Andrea Molesini – di “assediare la irripetibilità dell’attimo con associazioni tanto evocative da perpetuarne la vita”. Al dettato poetico è dato trovare la propria materia anzitutto in quegli iati, in quegli intervalli vuoti che “ci fanno scoprire la nostra essenza profonda”, e che accompagnano, quali fondali opachi e silenziosi, il vortice degli accadimenti umani. Sono le tracce ora meste ora liete dell’esistenza a disegnare un percorso all’interno di quel White Labyrinth (come si intitola uno dei componimenti raccolti, nel 2015, in The Lunatic, e ora pubblicati in italiano, nell’efficace versione di Damiano Abeni e Moira Egan, per i tipi di Elliot) che “aspetta / su ogni foglio di carta vuoto”, pronto a formare un’immagine anamorfica che tuttavia solo lo specchio del ricordo, spazio ripetutamente “animato e svuotato”, sembra poter rendere riconoscibile.
In tal senso, volendo rintracciare la genealogia di un’esperienza poetica affatto consapevole del ruolo svolto dalla tradizione, ma non per questo da essa irrigidita entro un canone consequenzialmente definibile, la prossimità, non di rado screziata d’una visionarietà di ascendenza sudamericana, che Simic manifesta con Emily Dickinson (alla quale dedica un meraviglioso pezzo, Scatole cinesi e teatrini delle marionette, fra i migliori di quelli che compongono La vita delle immagini) ed Elizabeth Bishop si amplia – lo testimoniano in massima misura i taccuini (pubblicati col titolo Il mostro ama il suo labirinto, Adelphi 2010) – fino a recuperare l’originaria vena slava (nato a Belgrado nel 1938 come Dušan Simic, nel ’54 il poeta approdò con la sua famiglia a Chicago). Il suo sentire poetico sembra allora consonare non soltanto con quello della Szymborska e di Zbigniew Herbert ma specialmente con quello di Oscar Vladislas Milosz. Comune a questi autori si mostra infatti il bisogno, più che di accordare la propria scrittura con quell’“eterno imperfetto” che modifica la visione delle cose e degli esseri e fissa la loro rappresentazione in una sorta di straordinaria dilatazione della durata, di declinarla nei modi di un “futuro grammaticale della nostalgia”: un futuro – ha scritto Milan Kundera di Milosz – che “proietta un passato sconsolato in un lontano avvenire; che trasforma l’evocazione malinconica di ciò che non è più in tristezza lacerante di una promessa irrealizzabile”. Lo testimonia esemplarmente il timbro col quale suonano i versi degli Scritti dei mistici (da Hotel Insonnia): “In una casa che verrà presto abbattuta, / di colpo silenziosa, estranea al mondo…”.
Nondimeno la malinconia che intride la scrittura di Simic, e che è anzitutto rimpianto per la perduta felicità di riuscire a superare il dolore dell’esistenza individuale, è connaturata così profondamente alla sua vocazione poetica da rendere del tutto adiafora una sua verifica di indole formale. Questa del resto non potrebbe che confermare, anche solo limitandosi a rilevare l’uso alquanto frequente dell’enjambement, emblematico sintomo del disaccordo fra suono e senso, quanto per Simic scrivere significhi – per usare parole di Jean Starobinski – “stilare sulla pagina bianca dei segni che diventano leggibili solo perché sono speranza oscurata”. Da questa contradictio in adiecto la poesia – avverte Simic – deve trarre ispirazione, lasciando che l’aporia si sviluppi in essa senza mai risolversi. Da lettore assiduo ed appassionato dell’ Anatomia della malinconia di Robert Burton (“il libro sull’infelicità più brioso di tutta la letteratura inglese”, afferma nel Mostro ama il suo labirinto), Simic certo non ignora il riferimento a Democrito di cui si legge in quest’opera, e del pari al riso e all’indignazione con cui fin dallo Pseudo-Ippocrate la sua figura è andata identificandosi. Ed è proprio al ridere di Democrito, tanto più sprezzante, oltre che più piacevole – rilevava già Montaigne – del lugere di Eraclito, che pare opportuno che la poesia si conformi, se non vuole cadere nel manierismo. L’ironia, spesso tagliente e mordace, è infatti l’unica “vera Musa della Poesia”, nota Simic concludendo un breve scritto pubblicato nel ’96 e ora riproposto nella Vita delle immagini
Sebbene non estranea al comico e al grottesco, e pur non disdegnando di cedere al fescennino, l’ironia della quale Simic decide il più delle volte di avvalersi è, al pari di quella di Hrabal (come dichiaratamente traspare dal sagace ritratto che Simic gli ha dedicato sulla Confitto in una solitudine che lo spazio letterario sembra sovente acuire, mentre “smarrito” appare il Tutto degli Assoluti, “la persona che dice di essere io” non può, ammette Simic nel folgorante Il cacciatore di immagini(Adelphi 2005) dedicato al genio irriverente di Joseph Cornell, che coltivare assiduamente e con pervicacia “il tentativo disperato di dare forma alle proprie ossessioni”. Di qui la necessità d’interrogare quell’“inconscio fisico” che – insegnava già Hans Bellmer – non restituisce alcuna immagine reale ma semplici “stenografie della sensazione”, per mezzo delle quali è possibile assistere al trasmutarsi della materia in spirito e dello spirito nella materia, e così dare un senso alla vanità dell’esistenza. Amo – dice Simic in Ragazzo prodigio (in Hotel Insomnia), quasi una chiosa alla sua poetica – la parola “scaccomatto”; in essa risuona la definitività del fallimento e, insieme, il conforto dell’insania: “una camera di compensazione per sogni e visioni” dove, per qualche breve momento, al caos malinconico è impedito di farsi organizzazione persecutrice. Luigi Azzariti-Fumaroli
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