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recensione di Coletti, V., L'Indice 1993, n.11
Giuseppe Pontiggia è narratore quant'altri mai attento e calcolato nell'uso del linguaggio. Dopo alcune vistosità stilistiche all'esordio, si è applicato a lavorare la forma in modo che essa aderisse minuziosamente al suo progetto narrativo, senza però esibire troppo i meccanismi e gli espedienti utilizzati. Un impegno assiduo, che lo ha indotto a correggersi, a rivedersi ripetutamente (le doppie edizioni dell'"Arte della fuga", della "Morte in banca" e del "Raggio d'ombra", ghiottonerie variantistiche di prim'ordine) e a riflettere sulla lingua e la testualità (sono diventate giustamente celebri e sue lezioni, le sue conferenze sul tema della composizione). Doveva dunque essere proprio uno scrittore così sensibile alla tecnica (anche se tutt'altro che limitato ad essa, basti ricordare la vena sentenziosa, l'umoralità netta e risentita de "La grande sera") a misurarsi con una singolare scommessa: raccontare le "Vite di uomini non illustri". Perché dico: scommessa? La narrativa, in realtà, è piena di storie di uomini non illustri, di tipi anonimi, banali; anzi, il romanzo, si sa, è proprio questo, coi suoi eroi piccoli, borghesi, le loro spesso modeste, normali esperienze, in tempi recenti, poi, il minimalismo ha fatto addirittura una bandiera dell'insignificanza dei personaggi e di ciò che capita loro. Ma il romanzo, raccontando storie di gente qualsiasi, per il fatto stesso di raccontarle, trasforma i propri personaggi in emblemi, li arricchisce di senso e valore. Se un narratore ha deciso di raccontare quella storia, quel personaggio, per quanto piccoli e poco significativi essi appaiano, vuol dire che egli li ritiene importanti e capaci di interessare, di coinvolgere e riguardare tutti. Così, il romanzo, il racconto trasformano in illustri anche i meno illustri personaggi e non è per nulla facile scrivere la storia di gente normale senza, in qualche modo, presentarla come eccezionale.
Da qui le grandi manovre strutturali dei pochi che hanno tentato l'impresa di farsi narratori di gente e storie qualunque, che tali dovevano restare anche dopo essere state elevate al protagonismo della narrazione. Ecco la prospettiva neutra e omologante della piazza in "Berlin Alexanderplatz" di Döblin; l'accostamento sistematico di eventi di rilievo mondiale ai fatti privati del protagonista in "Karl e il XX secolo" di Brunngraber. Ed ecco ora lo stratagemma di Pontiggia, che, per attenuare l'evidenza e l'invadenza di un codice narrativo di tipo letterario tradizionale (romanzo o racconto), ha preso come modello la biografia classica degli uomini illustri (di Cornelio Nepote) e l'ha ricalcato con notevole fedeltà. Le sue "Vite", come quelle latine, si svolgono lungo una trama elencatoria, monocorde e paratattica di fatti, accumulati però in vista di un obiettivo diverso, anzi opposto a quello dell'originale. Pontiggia, infatti, non punta verso l'alto, l'eccezionale, ma, ovviamente, verso il basso, il comune dei non illustri. Perché poi i personaggi non uscissero alterati e sopravvalutati dalla sua troppa premurosa attenzione, li ha moltiplicati e immessi in una sequenza (di vite) in cui la diversità, l'individualità sono subito corrette, ridotte, normalizzate dalla serialità, dalla ripetitività che tutte le assimila e unisce. Quindi, ha dato a ogni storia il tono di un resoconto neutro, burocratico quasi, cominciandole e finendole tutte con gli estremi anagrafici del protagonista.
Le date scandiscono sempre il progresso del racconto, ma introducono per lo più eventi insignificanti, banali tipo: "La mattina del 25 settembre 1948 dice a sua madre allibita: 'Basta Non voglio più ripetizioni'", "Il 10 dicembre 1905, in prima elementare, al termine del trimestre, suor Cecilia dice a sua madre...: 'È volonteroso, ma non è come suo fratello'" ecc. Le frasi fatte, insulse, citate, si annunciano con enfasi paradossale: "Commenta, con un sorriso amaro: 'Ora sono veramente un pensionato'", "cita una frase che ha letto sul 'Reader's Digest': 'Ho il mondo in casa. Perché uscire?'", gli episodi prendono il posto dei grandi eventi, le meschinità stanno per le classiche grandezze.
Tutto questo schiude una galleria di ritratti che è anche il disegno di un secolo (ci sono "vite" che cominciano nell'ultimo decennio dell'Ottocento e altre che finiscono oltre il Duemila) e del tipo medio che lo ha dominato; in particolare, dei suoi difetti, delle sue povere aspettative, delle sue stordite delusioni.
Ogni personaggio segue la propria stella con esasperante fedeltà ai propri difetti, alla propria stolidità, alle proprie vane speranze. Lo descrive ironicamente, all'inizio di ogni biografia, un'epigrafe dotta e solenne e lo racchiude mestamente la prigione di un vizio, di una debolezza, di una sciocca presunzione; lo incatenano fino alla fine, magari col modesto compenso di una gioia misurata e dolce, una stravaganza, una mania. Ne risulta un affresco della società italiana (tante le province e le generazioni rappresentate...), una storia del XX secolo dall'angolatura bassa e schiacciata di individualità modeste, insignificanti, di un'umanità dolente o lieta senza saperlo, assorta in se stessa, chiusa nel ronzio di un io ipertrofico ma ottuso e senza spessore, non di rado estranea e indifferente ai grandi eventi che hanno segnato l'epoca.
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