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Anno edizione: 2016
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265 p. paperback 9788806594091 Ottimo (Fine) .
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Questo libro non è male ma non arriva ai livelli de "Il sistema periodico". I racconti sono tutti significativi ma alcuni un "tantino" noiosi.
Recensioni
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recensione di Mancinelli, L., L'Indice 1987, n. 4
Quanti avevano letto, allorché usci nel 1971, questo libro di Primo Levi? Quanti ne ricordavano almeno il titolo? Ora che l'editore Einaudi lo ripubblica, molti di noi se lo trovano davanti come se fosse nuovo, appena scritto. Ed è giusto, perché il libro non risente affatto di questi quindici anni di oblio. Resta tuttavia inspiegabile come mai "Vizio di forma" sia passato così silenzioso nel mondo della carta stampata. Lo stesso Primo Levi se lo chiede nella prefazione alla ristampa, ma non sembra trovare una sua risposta. Riferisce invece che i critici, allora, giudicarono i racconti che compongono il libro non abbastanza catastrofici, non abbastanza impegnati come apocalittici deterrenti.
Il libro è infatti una raccolta di racconti, assai diversi tra di loro, ma che sempre hanno un rapporto con il mondo della tecnologia avanzata: il titolo "Vizio di forma" allude infatti agli effetti negativi che la tecnologia può avere,-e nei racconti di Levi ha-quando si verifica nell'apparato un difetto, un "vizio di forma". Va da sé che l'elettronica e l'astrofisica vi hanno una parte cospicua, ma anche la chimica, la botanica, la zoologia e, perché no?, l'arte della schedatura. Viene fuori il Levi curioso di tutto, interessato a tutti gli aspetti dell'esistenza, lo stesso, per intenderci, dell'"Altrui mestiere". Ma è anche un Levi pieno di fantasia, che si abbandona all'immaginazione e ci si diverte, anche se una vena di amarezza e di pessimismo affiora quasi sempre: ma appena appena, non tale da fare dei racconti uno spauracchio per quello che attende l'umanità prigioniera di una tecnologia che un giorno potrebbe non più dominare; non tale da inscrivere questo libro nella letteratura impegnata sul fronte apocalittico.
Forse è questo che critici e pubblico non hanno accettato in quell'inizio degli anni Settanta, quando si diffondeva in Italia la minaccia di un terrorismo eversore, quando, crollate le illusioni di una prosperità economica, si andava incontro ad anni di crisi, mentre la cultura americana propinava ai suoi fruitori visioni di catastrofi nucleari o soluzioni millenaristiche all'infelicità umana. Non si è accettato, in altre parole, che uno scrittore come Primo Levi, che si era rivelato con libri come "Se questo è un uomo" e "La tregua", si prendesse una vacanza raccontando storie immaginarie, avveniristiche, ma non troppo sul serio, ironiche e divertenti anche se sempre sottese da una malinconica riflessione sulla condizione umana. Forse il salto dai primi libri a questo era troppo brusco, o forse da Primo Levi ci si aspettava sempre qualche opera che avesse le sue radici nell'esperienza traumatizzante dei Lager o della guerra, quasi che lo scrittore ne dovesse rimanere prigioniero, lui che per esorcizzarne lo spettro devastante, per sopravvivere - "per tornare a vivere", mi disse un giorno - aveva scritto "Se questo è un uomo".
Primo Levi non è solo il testimone degli avvenimenti più sconvolgenti della nostra storia recente-anche se lo è, sempre e consapevolmente, come dimostrano"Se non ora quando?" e "I sommersi e i salvati": è anche un puro narratore, che trae ispirazione da molti aspetti della vita, in particolare quelli attinenti il lavoro suo e di chi gli sta accanto, come nel "Sistema periodico" o "La chiave a stella" o spaziando tra ricordi e curiosità di ogni genere, non ultime quelle letterarie e filologiche ("L'altrui mestiere"). In questi libri egli lavora già di fantasia, anche se con molta misura, quasi con pudore, e senza abbandonare il terreno solido della realtà quotidiana.
Forse occorreva che la critica, e sulla sua scia il pubblico dei lettori, si abituasse a questa dimensione del Levi letterato, per poter capire e accettare il "Vizio di forma": e letterato egli è fino in fondo, altrimenti perché avrebbe tradotto il "Processo" di Kafka? Era necessario quindi che lo scrittore ci guidasse quasi passo passo verso questa sua vocazione letteraria, avvertendoci che lui non è solo colui che "admonet" ma è anche uno scrittore tout court, e quando scrive qualche volta si diverte. Si diverte quando descrive le follie di una rete telefonica impazzita, che non si accontenta più di obbedire alle sollecitazioni di numeri chiamati attraverso gli apparecchi ma, divenuta autonoma e in possesso di una sua capacità di volere, cerca di dirimere contese, liti e controversie tra utenti, interviene senza alcuna chiamata per dare buoni consigli e mettere la gente sulla retta via. Ma poiché questo impegno moralizzatore non sostituisce la mortificante comunicazione di routine, alla fine la fantasiosa rete si chiude in un silenzio suicida.
Il divertimento prende il tono della satira quando l'autore si inoltra nella selva delle schedature capillari e meticolose ormai invalsa nelle aziende: schedatura che arriva a coinvolgere anche il personale impiegato, che ha le sue cifre di quantificazione di "resistenza al calore" o "tempo di reazione", esattamente come il materiale e gli oggetti d'uso per esempio le scope. Con un po' di autoironia si diverte nella doppietta "Lavoro creativo" e "Nel parco": nel primo uno scrittore riceve la visita di un personaggio da lui creato, che gli parla del parco dove vanno a finire i personaggi della letteratura, della loro vita e abitudini e del loro svanire quando il pubblico li dimentica. Nel secondo lo scrittore, invogliato da quel racconto, trasforma se stesso in personaggio scrivendo una autobiografia di successo, viene accolto nel parco e può vedere coi suoi occhi le celebrità della letteratura, i molti Cesari e le molte Cleopatre, una solitaria rompiscatole che è Beatrice, un tipo dall'approccio difficile come Francois Villon; assiste ai loro impensabili matrimoni (Alberto da Giussano con la Vergine Camilla, Sant'Agostino con la Suora Giovane ecc.) e ai loro strani mestieri: Annibale fa il pollivendolo, Romolo il ciabattino. Ma il personaggio autobiografico ha vita breve: poco per volta perde consistenza, diventa sempre più diafano, finché svanisce.
Anche "Il fulcro di se stesso" è una divertita storia della evoluzione della specie umana, fin dal tempo in cui, semplicissima struttura vivente, uscì dalle acque quello che sarebbe diventato l'animate uomo: storia divertita perché narrata in prima persona e con tempi ravvicinati, con una specie di ritmo sincopato. Malinconica è piuttosto la rivolta delle piante in "Ammutinamento", il loro lento e inesorabile tentativo di fuggire la vicinanza dell'uomo. Se i racconti imperniati su Recuenco possono parere un'accusa allo spreco e ai danni che gli aiuti al terzo mondo causano per l'eccesso di tecnologia che li accompagnano, altre volte la narrazione di Levi si colora di un profondo pessimismo, come quando descrive la rapida morte degli oceani a causa della viscosità dei fiumi, o il suicidio in massa dei lemming: da dove viene la volontà di morte dei piccoli roditori e che cosa ha di diverso da quella di certe tribù che vanno verso una volontaria estinzione?
Ma anche qui, dove il pessimismo prevale, e il racconto si fa così serio da attingere toni tragici che possono sembrare profetici, Primo Levi è ben lontano dall'assumere atteggiamenti moralistici o ammonitori; anche qui è il gusto della narrazione che guida la sua penna, il piacere di descrivere: si guardi l'accavallarsi delle masse dei lemming che si precipitano verso il mare, o lo spettacolo dell'acqua del Sangone divenuta viscosa, pigra e lenta come fango, o le reazioni dei presenti di fronte alle forme allusive create dalla strana macchina che è lo Psicofante, dove un bisticcio di radici smaschera il gusto filologico dell'autore. "Vizio di forma" è un libro in cui bisogna abbandonarsi al piacere della lettura, come l'autore si è abbandonato al piacere della scrittura, e non chiedere giudizi, profezie o ammonimenti. Questa volta Primo Levi è in vacanza, o quasi.
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