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Aver letto e ascoltato tutte queste critiche, rammarichi, improperi e scandalizzati giudizi, sullo stile sul tono dello scrittore, sulla trama inesistente, il mancato finale e tutto il resto risulta fuorviante per comprendere se lo si vuole l'opera di Veronesi del quale non ho letto niente altro e non conosco una sua poetica e i punti cardinali del suo mestiere che del resto bisogna riconoscere sa padroneggiare con destrezza. Tanta da sviare i lettori nella lettura di una non opera od opera negativa. Si fa fatica a leggere e portare a termine le quasi 400 pagine di XY cosi' come è successo a me e allo stesso tempo si deve andare avanti anche solo per scoprire alla fine cosa succede e che il mistero sia svelato, quella che poi è tutta la tensione irrisolta del libro, un bell'espediente non c'è che dire, chissà se Veronesi sia un lettore della Kabbalah e si sia accostato nella messinscena narrativa degli assunti della teologia negativa, palesa del resto nel racconto la psicologia analitica negativa di Bion, chissà che non si sia divertito a voler scandagliare le nuove frontiere del romanzare con questa storia gialla anzi noir che non è né un giallo né un noir, un thriller che non è un thriller, un comte philosophique che non lo è eppure si pone le grandi domande filosofiche e tutti i dualismi irrisolti: spirito e materia, ragione e fede, realtà e finzione, maschio e femmina, verità e menzogna, conscio e inconscio. Il due è il dato di tutto il libro anche molto schematicamente e il racconto "L'alfier nero" di Arrigo Boito posto a suggello del libro ne è la consacrazione, ma i dualismi non estinguono, la molteplicità ed i suoi stessi multipli dagli opposti stessi si generano e si sovrappongono in un puzzle inestricabile. Le domande irrisolte che XY lascia aperte sono le stesse di tante opere di meta letteratura nel quale contesto di deve inquadrare un supposto significato dell'opera. A cosa è servito scrivere 370 pagine senza sbocco, a cosa serve scrivere?
Deludente! L'ho comprato perché colpito dal titolo così originale e dalle "recensioni" presenti sul retro scritte da noti giornalisti (delle quali inizio a diffidare, a questo punto). Purtroppo, è tutto lì! Parte bene ma lentamente si spegne e, nonostante l'originalità della scrittura, davvero non si capisce dove l'Autore voglia andare a parare! Vuole dirci che non è necessario capire le cose per accettarle? Perché accadano? Vuole dirci che bisogna avere fede? Che la scienza non può spiegare tutto? Se così fosse, mi sembra che Veronesi se la canti e se la suoni da solo! Che delusione!
Finalmente un romanzo nel senso dell'invenzione e non delle notazioni autobiografiche, fintamente profonde quanto inutili di tanti scritti anglosassoni di moda. Scende nel profondo della conoscibilità, del vuoto, del non senso, del significato ultimo, ma non astrattamente, bensì rapportato alla psicologia-analitica (W. Bion) dei personaggi, ben distinti e reali. Entrati, non lo si molla facilmente e rimane impresso. Da rileggere in alcuni passaggi nodali.
Recensioni
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A cinque anni dalla buona prova di Caos calmo (e dall'ottima risposta dei lettori), Sandro Veronesi licenzia questo meditato, ambizioso e, quasi del tutto, riuscito romanzo. Nel bosco d'alta montagna attraverso cui si accede a Borgo San Giuda (il Taddeo, patrono dei disperati e delle cause impossibili, non l'Iscariota), durante una giornata qualunque, sotto una comune tempesta di neve, accade l'inconcepibile: un'orrenda e immotivabile strage d'innocenti. La scena che si presenta ai primi testimoni è indescrivibile e getta il personaggio narrante, la piccola comunità montanara di cui è parroco e, via via che se ne scoprono i particolari raccapriccianti, le autorità, la regione e il mondo intero nel più assoluto abisso di non senso. Contemporaneamente, a pochi chilometri di distanza, durante il sonno, all'altro personaggio narrante, una giovane psichiatra, si riapre e riprende a sanguinare una cicatrice vecchia di quindici anni. La comparsa subitanea e sconcertante del Male assoluto, ontologico, senza causa né fini rende manifesti e aggrava i mali relativi della comunità e dei singoli. Le menzogne del potere, i guasti nel tessuto delle relazioni sociali e le sofferenze psichiche dei singoli maturano fino a marcire. Al male assoluto non si può mettere riparo e gli uomini e donne di buona volontà (i due personaggi narranti e un terzo che, a un certo punto del romanzo, sembra poterli affiancare), senza potersi liberare delle loro esitazioni, debolezze, dubbi radicali, possono opporgli solo il bene relativo. Tutto l'involucro esterno al romanzo, suddivisione in tre parti, titolazione dei capitoli, alternanza dei paragrafi tra i due personaggi narranti, dedica, epigrafi, ringraziamenti finali sembra voler richiamare uno spirito geometrico, una necessità d'ordine che la materia narrativa nega. Le due voci narrative sono fortemente caratterizzate sul piano biografico, caratteriale ed espressivo. Il parroco (cui l'appellativo di prete andrebbe stretto per la dedizione con cui si offre alla comunità), consapevole della propria missione pastorale, seguace, a suo tempo, della teologia della liberazione, anticonformista, assalito dai dubbi metafisici e teologici, ma non disposto ad arrendersi al Male, narra la vicenda al passato con una prosa piana e argomentativa che si sovrappone alla realtà, nel tentativo di domesticarla, renderla disponibile alla comunicazione. La giovane psichiatra è, invece, dentro la materia, la narra al presente, in una prosa franta, continuamente disturbata da interferenze esterne e interne, composta spesso da spezzoni di discorsi altrui, reali o immaginari, una prosa ruvida e polifonica che, pur non perdendo la funzione comunicativa, s'apparenta a codici letterari più inquieti e mimetici. La descrizione dell'indescrivibile (le morti delle vittime della strage) è invece affidata all'unico linguaggio in grado, da Kafka in poi, di assumersene l'incarico: il linguaggio spersonalizzato e oggettivante della burocrazia, in questo caso rappresentata dai referti autoptici e dalla codarda memoria cautelativa di uno degli investigatori, coinvolto, suo malgrado, nelle montature rassicuranti del potere. Il romanzo è così ben costruito che si dubita e si mette in discussione tutto: in un evento tanto eclatante e, letteralmente, impossibile, non è giustificata una montatura che non faccia uscire di senno il mondo intero? E l'autoreferenzialità psichica, la chiusura in se stessi che vince gran parte della comunità e tenta anche i personaggi narranti uno celebra messa solo per se stesso e se ne inebria, l'altra si consegna a una seduta psicanalitica della quale è contemporaneamente analista e paziente non è l'unica risposta possibile? L'enormità del tema al centro del romanzo, l'alternanza dei punti di vista e dei registri stilistici, la fluidità psicologica dei personaggi, simboli, se si vuole Fede, Scienza , ma mai icone o immagini che rimandano immediatamente al loro significato ulteriore, perché mantengono una loro opacità, un residuo, un'umanità che non permette di scioglierli del tutto nella loro eventuale significazione simbolica, il ritmo sostenuto, il taglio sapiente e smaliziato dei paragrafi, avvincono il lettore e lo rendono partecipe di un'esperienza di scrittura, di riflessione teologica, psicologica e sociale di non comune livello. "Davvero, un gran bel romanzo", esclama, "Quant'è che non se ne leggevano così". Si avvicina la fine, si comincia a capire che il mistero non avrà spiegazioni né teologiche né scientifiche, c'è ancora il tempo per una possibile bella definizione della letteratura: "Una specie di disperato 'accerchiamento descrittivo'", "Sì. Ma non disperato. Ispirato" (corsivo nel testo), ma mancano ancora una trentina di pagine, cosa succederà ancora, fin qui l'enormità del tema non ha squassato l'equilibrio, non ha travolto l'autore né i personaggi, non c'è stato scadimento nel banale, nel patetico, nell'enfatico, nel misticismo, non sarebbe il caso di fermarsi qui, chessò un'opera volutamente incompiuta, come Kafka, magari? No, ci sono ancora due paragrafi: uno per il prete e uno per la psichiatra aspirante psicanalista. E tutto crolla. E al recensore tocca confessare che scricchiolii e crepe erano passati inosservati o sottovalutati o francamente malintesi. A ogni qualità letteraria, filosofica, psicologica e sociale viene apposto un segno meno, tutte sono risucchiate dalla loro corrispondente antimateria. Il conturbante si fa consolante, la prosa argomentativa, tesa e profonda del prete si trasforma in un indulgente sorriso mistico: siamo tutti figli di Dio, infine. L'inquietudine e la mimesi della psichiatra franano in un incongruo flusso di coscienza con tanto di esperienza extratemporale (convenzionali e superficiali imitazioni l'uno e l'altra). In questo modo il romanzo si libera dall'angoscia kafkiana ricorrendo a un semplicistico e discutibile sincretismo che concilia il diavolo e l'acqua santa (tanto per rimanere in tema), Joyce e Proust. E al lettore, coinvolto e partecipe fin quasi alla fine, rimangono non solo le domande a cui l'autore e i personaggi narranti non hanno potuto, voluto, dovuto e saputo rispondere, "che cosa è successo e perché?", ma anche l'interrogativo se fosse davvero necessario trovare "la porta per uscire da questo romanzo". Paolo Mantioni
Un attacco pascoliano: un cavallo ritorna trainando ansimante e spaventato una slitta vuota. È successo qualcosa, ma cosa?
Una donna si sveglia in un lago di sangue e non capisce perché si sia riaperta una cicatrice di quindici anni prima. È successo qualcosa, ma cosa?
Un albero avvolto in un cappotto di ghiaccio nel freddo invernale, trasparente ma rosso come "un'immensa caramella Charms". È successo qualcosa, ma cosa?
I morti sono dieci (o undici?), i resti sparsi avvolti e coperti dalla neve, otto adulti e due bambini più una cavalla e un cane. Dunque è avvenuta una strage, ma come? perché? a opera di chi? e in questo cosa c'entra la dottoressa che si è fatta ricucire un dito ferito?
È un angoscioso crescendo di fatti, di impressioni, di tragedia, di angoscia, di impotenza, di delirio - narrato con la voce parallela della dottoressa (Giovanna Gassion, omonima di Édith Piaf) e di uno dei primi a essere accorsi sul luogo del massacro, il parroco -, questo affascinante romanzo di Sandro Veronesi, che ben si presta a quel lavoro di indagine in rete che è stato composto dalla casa editrice e dall'autore sul sito del libro dedicato.
Ambientata in Trentino nel piccolo villaggio di Borgo San Giuda (un nome non privo di implicazioni) la vicenda diventa via via sempre più paradossale e spaventosa e prende una deriva allucinatoria quando si scopre che i passeggeri della slitta morti sono tali per eventi totalmente differenti fra loro e, ancor più incredibile, alcuni per motivi del tutto naturali, apparentemente persino in giorni differenti.
Se il Male non è comprensibile si può mascherare con una spiegazione logica. E se il Male si trova fuori ma anche dentro di noi il pericolo è lo sgretolamento delle certezze e una paura indefinita e spaventosa senza scampo.
XY insieme sono i cromosomi maschili, ma rappresentano anche la donna (X) e l'uomo (Y). In questo caso sembrano anche voler sottolineare le due versioni, quella scientifica-psicologica e quella spirituale-religiosa di una vicenda di per sé inspiegabile che trascina in un turbine mediatico e in un vortice verso la follia i pochi abitanti di San Giuda.
A cura di Wuz.it
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