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Settantasette si presenta come una raccolta acquatica, erbosa, ventosa, avendo per lo più come sfondo un ambiente fatto appunto di fiumi e torrenti, di prati e piante, di elementi atmosferici e cosmologici. Ma non è certo un sentimento panico di immersione nella natura quello che contraddistingue l’atteggiamento del poeta, poco incline alla nostalgia retorica verso la genuinità idilliaca della vita campestre. Piuttosto, l’aspetto che caratterizza la sua posizione di osservatore distaccato e disincantato dell’ambiente circostante è l’interesse per la storia, la geografia, le scienze naturali, che viene espresso attraverso l’esibizione di una terminologia specifica, fatta di vocaboli tecnici o desueti, emergenti da una tessitura linguistica destabilizzante, quasi provocatoria. Il lessico tratto dalla botanica e dalla zoologia è sconcertante nella sua insolita sovrabbondanza: vegetali e animali costituiscono una sorta di bizzarra enciclopedia dell’inusuale. Tutto un repertorio naturale a cui si oppongono descrizioni perimetrali di case, paesi, città, cimiteri, ospedali, ricoveri per indigenti: costruzioni umane, insomma, e per questo impenetrabili e ostili. Naturale e artificiale sono intesi come antipodi concettuali, alla stessa maniera in cui si contrastano e compenetrano passato e presente: preistoria, medioevo, risorgimento, guerre mondiali, viaggi astrali… Come le epoche storiche, anche i luoghi geografici si intersecano e sovrappongono, indefiniti e mitici: la Valle dello Scesta (con i suoi calanchi, torrenti, dirupi) sfida gli altopiani del Nord America, le tombe etrusche affiancano i “fabbricati isolati” delle periferie industriali, le navi spaziali sorvolano Auschwitz. Una poesia difficile, in qualche caso addirittura respingente, questa di Alessandro Ceni, perché non consolatoria e volutamente esasperata. Ma densa, intricante, visionaria, e persino metafisica nel suo avvampante descrittivismo concettuale.
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