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A ciascuno i suoi morti. Un album di racconti - Luciano Curreri - copertina
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2010
1 gennaio 2010
104 p., Brossura
9788889056493

Voce della critica

L'esordio narrativo fintamente giovanilistico di un professore di mezza età (classe 1966, Luciano Curreri è ordinario all'Università di Liegi: per l'accademia italiana, un pischello) centrifuga in dieci brevissimi racconti schegge di "rancore" e sussulti di scomposto vitalismo: le une e gli altri refrattari a qualsivoglia tardiva resipiscenza. Storia diffratta degli incidenti di un tormentoso "apprendistato intellettuale" (e, accessoriamente, erotico-sentimentale), verbale frammentario e fantasmatico di una sconclusionata esuberanza (culturale e sessuale), A ciascuno i suoi morti è libretto provocatorio fin dal titolo: che torce il collo all'abusata retorica della memoria collettiva, degradandola nella finzione teatrale e quasi psicotica di un esibito individualismo, i "morti" essendo i volti negati di un'identità che si è formata per selezione violenta ("Pezzi miei, morti, dentro il mio corpo vivo"). Scrittura dell'io, dunque, come suicidio rituale, suggerisce il testo più scopertamente autoriflessivo, Monodiavolo; e come virtuosistico esercizio di condensata autofiction: le "palle" facendo non di rado aggio sulla "realtà". Convulso ritratto di un giovane che, mentre accetta una paradossale predestinazione – figlio di un tipografo, vive nella bulimia del libro, nell'ossessione di scrivere un grande romanzo, di essere a suo modo un "intellettuale" –, rifiuta ogni scontata coazione familiare o ideologica: "Non so niente di Gramsci… non so niente di mio nonno…" ("E non ho mai sognato di fare l'amore con mia madre"); e prende a bersaglio, beffardo, i tristi chierici d'accademia o di partito.
Come è giusto, di una rabbia d'ascendenza céliniana, di una viscerale e anarcoide scorrettezza ("Odio i fighetti e i froci senza palle che circolano nel nostro milieu", "E parlano tanto di lotta, di ideologia a buon mercato"), serba traccia la scrittura: che non rifugge dai simulacri dell'oralità informale ("battute da tre soldi"; frequenti evocazioni filmiche: "cinema di merda" e non solo); e accoglie perfino qualche sciatteria gergale: ricercata, ovviamente, quasi fosse il sedimento minerale della lussureggiante erudizione riversata dall'autore nei suoi libri di critica, il negativo della convoluta eleganza argomentativa del saggista.
Fortunatamente, Curreri non è l'ennesimo professore-romanziere; o se lo è, come Walter Siti dismette nel sado-masochismo della scrittura ogni rassicurante, togata distanza; e non si rassegna a "ingollare la pillola del disincanto". Per questo, nella loro idiosincratica esilità di quasi casuale opera prima, i racconti di A ciascuno i suoi morti contribuiscono all'autobiografia di una generazione – quella che è diventata adulta nei proverbialmente esecrabili anni ottanta (topos non certo da capovolgere; ma da sfumare forse sì: se musica, cinema e letteratura potevano ancora essere le cifre di un Bildung) – più dei troppi, pretenziosi, noiosissimi romanzi a tesi, sfornati oggi dai quarantenni di successo: cui fa precisamente difetto la "sincerità fisica", l'unica capace di approssimarsi a una qualche "verità".
Pierluigi Pellini

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