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recensioni di Chiarloni, A. L'Indice del 2000, n. 01
"È molto probabile che tu sia quel bambino sarcastico che s'incontra nelle tetre fiabe tedesche. L'industria l'ha attirato fuori dal suo sottobosco nelle città sterminate e ora eccolo là che, gli occhi spalancati, cerca di scorgere qualche ultima radura". Disegnato in una delle forme predilette da Grünbein - quella dialogante del "tu" - l'autoritratto, inedito in Germania, apre l'ampia scelta di versi, mirabilmente curata da Anna Maria Carpi, del giovane poeta di Dresda. Si tratta di una breve prosa che predispone a una lettura ecologica, come s'intende da queste prime righe. E nella raccolta ci sono poesie scritte in morte di alcuni animali - il cane e la talpa, la rana e la lepre: vittime a margine dell'umano furore tecnologico -, che rivelano il lutto di una natura violata. Ma nell'ampio saggio introduttivo Carpi si sofferma opportunamente su di un dato portante dell'autoritratto, l'aggettivo "sarcastico", rammentando che l'etimo greco rimanda all'operazione di staccare la carne dalle ossa, fino a scoprire lo scheletro. E difatti di carni spolpate e crani scoperchiati nei valzer biologici di Grünbein, sempre condotti con grande sapienza metrica, ce n'è parecchi. Rare invece le "radure" che, quando ci sono, sanno di cloro e formalina perché in un mondo affluente e, proprio perché tale, ormai ridotto a medical center perfettamente cablato, tutto è "sotto controllo, lingue, culti, satelliti". Al centro di questo devastato paesaggio con poche figure c'è l'uomo di oggi: un torso anatomico inchiodato sul tavolo operatorio, clinicamente messo a nudo e rilevato su mappe virtuali. Lo stesso cogito ergo sum non può che essere un imbroglio, un "trucco psichico", se non un ematoma. E l'esistenza? Tutt'al più un coma felice ma senza scampo, giacché "metodica, con aghi e lame ti arriva addosso la morte".
Viene da chiedersi quale sia la matrice culturale di un dissezionamento che si articola in una vera e propria Lezione sulla base cranica, come s'intitola una delle raccolte. Grünbein è un poeta colto, forte di studi classici. Utile è quindi l'ampia genealogia letteraria tracciata da Carpi che, oltre a Gottfried Benn, certamente essenziale per Grünbein, cita Baudelaire e Huysmans, Eliot e Pound. Richiamerei tuttavia una cifra nazionale specifica, da estendere come dirò verso oriente. Non sono tra quelli che appena possono puntano il dito sugli scheletri negli armadi tedeschi, certo però che l'io storico, e anche biografico, di Grünbein sembra stare alla base di molte delle sue poesie.
"Poi andammo a nuotare, a tu per tu con i morti" si legge in Trigeminus. E ancora: "Nulla fa immuni contro l'esser soli / che viene dall'infanzia (...) Intorno morti, annegati nel sogno, / mettono in scena fiabe tedesche, storie della mezzanotte".
Colpisce insomma in Grünbein - e in tanti altri autori suoi coetanei, si pensi a Marcel Beyer - come il ricordo dell'orrore continui a riemergere nelle forme più diverse. Chi pensava che con la scomparsa dei carnefici il passare del tempo avrebbe operato una sorta di smaltimento biologico del senso di colpa nella cosiddetta generazione innocente ha dovuto ricredersi. In questo paese in cui la memoria "geme dalle cantine, brontola nella pietra" e il piede passa soffice "sopra tombe spianate e sentieri", anche gli arredi domestici più innocui evocano il passato. Si legga E la mattina schizza fuori dalla doccia, dove l'innocente operazione d'igiene mattutina evoca uno dopo l'altro i vocaboli dello sterminio: rantolo e morte, ossa e sapone.
Per un autore che è nato e cresciuto al di là del muro c'è poi l'esperienza della reclusione. È, questo, un dato che avvicina Grünbein a molti intellettuali dell'Est europeo. Vero è che Grünbein nella Ddr non s'impigliò mai in una discussione ideologica, tanto che poté pubblicare a occidente la sua prima raccolta di versi ancor prima della riunificazione. Ricordo anzi che quando lo conobbi, nel 1990, definiva - con quel suo fare ironico e arguto - del tutto anacronistico il confronto politico in un mondo mediatico, dove quello che conta è ormai la carta moneta. Ma nel corso degli anni successivi il ricordo di un'adolescenza "accerchiata da truppe mobili", in un paese in cui l'orizzonte "era uno spettro, / una barriera, ruggine e ferro", deve avergli lavorato dentro dando voce a immagini di fiabe feroci. In versi talora lapidari - "A non finire mai è la paura." - si legge di un'angoscia che non conosce né confini, né cesure storiche.
D'altra parte, quel "ronzio sotterraneo dei mangiacarte" che penetra nell'individuo colpendolo attraverso l'osso frontale, quel riemergere nel dormiveglia di funzionari "irrigiditi dall'uniforme", rimanda a memorie ricorrenti anche in altri autori che hanno vissuto oltre la cortina di ferro, e non solo tedeschi come Wolfgang Hilbig, ma anche di origine rumena, come Herta Müller o Werner Söllner. Il sospetto "avvelena ogni parola", e la salvezza è "una bocca chiusa. / La lingua, anguilla decapitata, in gola", scrive Grünbein. Ora, in questa poetica di corpi lesionati e franti è riconoscibile un tratto rappresentativo di varie espressioni artistiche dell'Est europeo. Si veda per esempio Mir, il multiplo del russo Sergei Bugaev Afrika, presentato all'ultima Biennale di Venezia: un vano piastrellato d'istantanee ingiallite del mondo sovietico - operai e contadini con le bandiere rosse -, al centro del quale un corpo maschile, ingabbiato in una struttura tecnologica, sussulta nudo e implorante sulla tavola operatoria.
Più morbida e asettica è forse la lesione tedesca di cui ci parla Grünbein, ma anche più precoce e decisiva. Così recita infatti l'ultima strofa di uno dei testi più toccanti, O patria, cinica eufonia: "Radiografati, vaccinati, al doppio clone tedesco / che, occhio spento, anela a vasti orizzonti siamo / malamente votati, ammaestrati in fase prenatale. / 'Germania'... O patria, cinica eufonia.".
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