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Bene ha fatto la casa editrice Bollati Boringhieri a ristampare questo prezioso, nonché oramai introvabile, volumetto. Originariamente il testo, un vero e proprio strumento di lettura sistematica, smontaggio analitico e rimontaggio critico di quella che è stata definita la "macchina mitologica antisemita", era uscito per le pagine della rivista "Comunità". Si trattava del lontano 1973. Un giovanissimo Jesi consegnava così al lettore italiano un potente strumento di lavoro poiché il saggio si presenta con questa natura aperta e programmaticamente laboratoriale su un tema, quello del delitto rituale, capace di congiungere potere, identità collettive e comunicazione sociale. Una sorta di intreccio o, se si preferisce, di viluppo inestricabile, fondato sulla razionalizzazione del visibile attraverso il ricorso all'invisibile come chiave esplicativa della complessità sociale. Jesi ne indaga quindi la qualità mitopoietica, ovvero il suo essere agente di mito prima ancora che mito esso stesso, capace di riprodursi nel tempo e non malgrado, ma in virtù dell'assenza di riscontri. Una prova non tanto di controfattualità quanto di iperfattualità, basata, ovviamente, sulla traslazione della realtà in una dimensione di lucido onirismo. Fondamentale, per la comprensione del lavoro di Jesi, la corposa introduzione di David Bidussa che, di fatto, ha ripreso in mano la lezione dell'autore, proseguendola lungo tempi a noi più prossimi. Ci sia infine permessa una considerazione affettuosa, ricordando l'opera di un uomo scomparso ormai più di venticinque anni fa, nel pieno della sua vivacissima produzione intellettuale e che, se fosse rimasto più a lungo in vita, ci avrebbe consegnato molte altre importanti riflessioni.
Claudio Vercelli
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