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Una casa tra due mari, il luogo del ritorno. Dentro quelle stanze si è incagliata l'esistenza di una donna.
«Un padre sceglie di andarsene per sempre. E la sua scomparsa volontaria, ancora più della morte, mina la vita della figlia. Nadia Terranova sa nominare il dolore con la precisione chirurgica di chi lo conosce. E non lo teme più» - Robinson, La Repubblica
"Fra il tramonto e la cena, l'assenza di mio padre tornava a visitarmi. Aprivo il balcone sperando che il temporale filtrasse dai soffitti e squarciasse le crepe sul muro, supplicavo la tramontana di trasformarsi in uragano e rovesciare in terra l'orologio e le sedie, all'aria il letto, i cuscini, le lenzuola. Non vuoi sapere che sono diventata grande, non ti interessa?, chiedevo, e nessuno rispondeva"
Una casa tra due mari, il luogo del ritorno. Dentro quelle stanze si è incagliata l'esistenza di una donna. Che solo riattraversando la propria storia potrà davvero liberarsene. Nadia Terranova racconta l'ossessione di una perdita, quel corpo a corpo con il passato che ci rende tutti dei sopravvissuti, ciascuno alla propria battaglia. Ida è appena sbarcata a Messina, la sua città natale: la madre l'ha richiamata in vista della ristrutturazione dell'appartamento di famiglia, che vuole mettere in vendita. Circondata di nuovo dagli oggetti di sempre, di fronte ai quali deve scegliere cosa tenere e cosa buttare, è costretta a fare i conti con il trauma che l'ha segnata quando era solo una ragazzina. Ventitre anni prima suo padre è scomparso. Non è morto: semplicemente una mattina è andato via e non è piú tornato. Sulla mancanza di quel padre si sono imperniati i silenzi feroci con la madre, il senso di un'identità fondata sull'anomalia, persino il rapporto con il marito, salvezza e naufragio insieme. Specchiandosi nell'assenza del corpo paterno, Ida è diventata donna nel dominio della paura e nel sospetto verso ogni forma di desiderio. Ma ora che la casa d'infanzia la assedia con i suoi fantasmi, lei deve trovare un modo per spezzare il sortilegio e far uscire il padre di scena.
Indice
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Ho trovato questo lavoro molto interessante dal punto di vista narrativo e psicologico. Partiamo dal titolo: fantasmi, al plurale. Sì perché nonostante in apparenza il fantasma sia solo uno, il padre, in realtà le parentesi aperte, i puntini in sospeso di Ida sono molti di più: un episodio che ha segnato uno spartiacque nella sua adolescenza, la perdita di contatti con la migliore amica, i tre centimetri del terrazzo. Ida ha vissuto, o meglio è sopravvissuta agli anni seguenti la scomparsa del padre con questi vuoti mai colmati e mai risolti. È prigioniera dei dubbi e del dolore, non è mai riuscita ad andare avanti e crescere, a fare scelte da adulta. Persino il suo lavoro di autrice non esce dal perimetro dei suoi "fantasmi". Il ritorno presso la casa di famiglia e lo scontro col passato e allo stesso tempo con un evento tragico le faranno comprendere ciò che nessuno sguardo esterno è mai riuscito a dimostrarle: la morte non è affatto un addio ai ricordi. Se il padre non se ne fosse semplicemente andato ma fosse deceduto la sua vita non sarebbe stata diversa: avrebbe comunque dovuto fare i conti nei successivi anni con la nostalgia, la perdita, il senso di colpa. Ida capisce quindi che ognuno deve trovare il coraggio di proseguire e di trovare la propria strada. Di spezzare le catene col passato e, se necessario, anche con la famiglia. La libertà si deve conquistare e il dolore non va respinto ma accolto, vissuto, introiettato e infine accantonato. Racconto breve ma intenso, scrittura limpida ma profonda. A tratti forse pesante, essendo per buona parte un monologo, lo consiglio a tutti coloro che desiderano interfacciarsi con la buona narrativa, respirare il profumo della Sicilia, affrontare gli altrui fantasmi per capire un po' anche i propri.
Romanzo stupendo che tratta con estrema delicatezza e lucidità il complesso rapporto madre figlia
Niente da fare, seppur interessante la suddivisione in tre atti, è stato troppo introspettivo. Non l'ho gradito. Le vicende del ragazzo giovane si sono intrecciate a mio avviso solo per dare una mossa alla trama..
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Qualche anno fa ho cominciato a dirigere una collana di narrativa.
Nel primo romanzo che ho pubblicato, il padre del protagonista era morto, caduto dal tetto. Nel secondo, era stato ucciso in una zona di guerra. Dato che le mie scelte non avevano nulla a che fare con riflessioni di ordine tematico, ma solo di qualità prosastica e strutturale, non poteva che essere una coincidenza. Anche nel terzo romanzo, però, il padre era morto: addirittura ghermito da una maledizione. Nel quarto era un inetto che passava le giornate al bar. Nel quinto, la figura paterna, che sostituiva di fatto il padre del protagonista, si rivelava uno sbirro invischiato in trame nere. Nel sesto il padre non c’era proprio, c’era solo la nonna. Babbo assente anche nel settimo. Nell’ottavo, a essere padre era il protagonista, ma abbandonava moglie e figlio per dedicarsi alla sua collezione di serpenti. Nel nono era sostituito da un “putapadre”, e via così. Non sarà, mi son detto, che la letteratura italiana contemporanea esprime tra le righe un nodo problematico, che ci riguarda tutti, rispetto alla figura paterna?
L’assenza del padre è il addirittura il fulcro del secondo ed eccellente romanzo di Nadia Terranova, Addio fantasmi. Un ritorno a casa, da Roma a Messina, risveglia nella protagonista il trauma della scomparsa, che acquista cadenza e si sostanzia in una serie di “notturni”, più o meno onirici: ma lo spazio lasciato vuoto dal padre – cioè tutto, a parte quello contenuto in una cruciale scatoletta rossa – serve alla protagonista per prendere coscienza di come anche la sua vita adulta sia più fantasmatica di quanto non osi ammettere, mentre l’esistenza, quella vera, esiste solo nella contingenza del momento.
L’impressione è quindi che, bypassata l’uccisione, l’assenza del padre diventi condizione necessaria al racconto. Che fare, allora?
Vanni Santoni
I vincitori del concorso “Caccia allo Strega” 2019
Jessica joy_in_the_deep - Recensione stregata scelta da Nadia Terranova
Evocativo, doloroso, quasi magico. "Addio Fantasmi" è un libro bellissimo. Sapevo che mi sarebbe piaciuto da impazzire dal primo momento che l'ho visto, pur senza conoscerne la trama, se non lo "Stretto" necessario (essendo ambientato a Messina leggendolo capirete perché questo mio gioco di parole) e senza averne mai letto neanche un frammento. Sentivo che era il libro per me, quel genere di romanzo che mi entra nel cuore e mi fa emozionare. Così è stato. Una storia potente, quasi immobile ma devastante nei fatti, nei ricordi, nei pensieri. Un libro sulla scomparsa e sulla perdita, sulle mancanze, sulle paure, sulle parole e sui silenzi, sulla sofferenza, sulla memoria, sulle domande che non avranno mai pace. Nadia Terranova ha scritto un piccolo capolavoro, introspettivo, profondo e intenso. Ovunque nelle pagine c'è l'acqua e ci sono i ricordi, che fanno male, che fanno mancare l'aria. Il mare è lì. C'è, quasi non si vede, non sempre, ma è dappertutto. Si sente, si percepisce, si vede nitidamente il dolore, il non riuscire a darsi pace e a superarlo. La speranza non muore perché quel punto di non ritorno non si trova. La narrazione scivola delicata, elegante ed esatta, perché ogni parola è giusta, ogni frase è precisa e azzeccata, non potrebbe essere raccontata in altro modo. I sentimenti Nadia li racconta con le azioni, con i movimenti e le frasi della protagonista Ida, così bloccata ma viva. I sogni, e gli incubi, si intrecciano ai momenti del passato che riaffiorano pesanti e zuppi di inquietudine e nostalgia. Super consigliato, l'ho amato. Mi ha fatto sentire la mancanza della Sicilia, una terra che non conosco e in cui non sono mai stata, ma l'autrice la rende così viva e reale da farla palpitare davvero come se fosse di tutti, anche nostra. Copertina: 4. Storia: 5. Stile: 5.
Valeria
Nadia Terranova, in Addio Fantasmi, fa proprio questa operazione narrativa, delicata, oscura, catalizzatrice: fa evaporare la figura paterna e quella coniugale del marito, per lasciare sotto un cono di luce, dapprima ristretto, la figlia al suo centro. Una figlia zoppa, incapace di immaginare qualcosa che possa implicare un progetto o un futuro, impossibilitata a immaginare una vita che passi attraverso la sua, incapace a vedersi incastrata, eppure ferma, immobile, sebbene sia scappata a km di distanza. Pian piano quel cono di luce si amplia fino a comprendere l'altra figura determinante, la madre, la sua compagna invecchiata, il suo riflesso maturo. La femminilità, con le sue problematiche, con il suo pozzo (come lo chiama Natalia Ginzburg nel suo "Discorso sulle donne"), viene messa in risalto da questi chiaroscuri, che dove rimuovono e risucchiano, sanno anche ridare e illuminare. E proprio il pozzo mi sembra una metafora adatta a descrivere questo bellissimo romanzo: un pozzo che risucchia un vertice fondamentale di un triangolo familiare, madre-padre-figlia, il padre, lasciando una retta senza principio né fine, quella della coppia madre-figlia. Ma dal pozzo si può riemergere, si può tirare su l'evento primigenio, l'acqua. Altro elemento fondante l'acqua che contiene la vita incipiente, l'acqua vendicativa che distrugge, l'acqua fantasma che macchia e ricorda, l'acqua colpevole ma anche l'acqua purificante. Salsedine e ossigeno: il mare aiuta i pensieri. Un'acqua segnata da confini, quelli dello Stretto di Messina che è limen, che è valico, e quindi crisi. E per un siciliano che decida di andare via, quel confine è un perenne dilemma, è un andare e un tornare, è un dimenticare e un ricordare. COPERTINA 5 STORIA 5 STILE 4
martineden
Di un'infinita profondità. Il dolore esattamente com'è, come deve essere. La perdita. L'assenza del padre. Gli spettri del passato, a partire dal titolo. Di per sé niente di nuovo all'orizzonte. Dal di fuori sembrerebbe l'ennesimo romanzo sostenuto da archetipi e cliché. Errore. Perché le belle storie trovano sempre la loro maniera originale di farsi narrare. Non importano i plot né le strutture. Ciò che conta è la voce, la capacità del tutto umana di rendere partecipi gli altri dei propri trionfi e delle proprie miserie. I personaggi di Nadia Terranova sanno farlo alla grande. COPERTINA 4- STORIA 3- STILE 5
Paola M
A coloro che folgorati dalle promettenti aspettative del titolo -una garanzia, o forse più una speranza, che le paure, le delusioni, la solitudine, i dolori di cui tutti siamo afflitti, possano definitivamente congedarsi-va l’ammonimento di diffidare della semplicità con cui liquidiamo le escrescenze della vita. Sì, perché il libro, scritto con una voce scavante capace di suscitare un effetto ipnotico nel lettore, compie una ricostruzione dolorosa e minuta di quell’apparato VITA, a volte scivoloso e intangibile, di cui siamo prigionieri o rifugiati, perché ancorati più alla infelicità che non alla felicità, più alle forme statiche e rassicuranti di certi modelli di vita che non alla trasformazione di cui siamo pure capaci. Con essa, alla liquidazione, appunto, di certe esperienze che trattiamo come fossero le Sacre Scritture. Il commiato col passato, che si svela nelle ultimissime battute, dopo che il personaggio ha attraversato la dura prova della maturazione, è ritardato da una sequenza descrittiva, e quasi animata, di ricordi. La galvanizzazione degli oggetti (anche gli oggetti hanno una vita, un destino preciso nella storia di Ida),ai quali si conferisce una presenza parlante e rivelatrice, invece di esorcizzare i fantasmi, sembra volerli portare in vita con una precisione maniacale che ci viene in soccorso con la stessa amarezza di una medicina. Tutto si anima fino a comporre una memoria del dolore eterna e palpabile: le solitudini sono “abitate”, le voci fanno “esistere tutti, compresi il portaombrelli e l’inginocchiatoio in noce”, le ore hanno un colore, le cose hanno un volume e un peso specifico. È qui, in questa risalita che si svela il valore curativo del romanzo: nelle pagine che pure abbondano di riflessioni sull’incomunicabilità, sull’ineluttabilità del tempo, sull’inafferrabilità degli altri c’è anche la vita, quella vera e forse quella più bella. Se fosse un bugiardino: lasciare fuori la portata dei bambini. Copertina: 1 Storia: 4 Stile: 5
Mirko Denza
"Mio padre si è messo da parte: non è lui che piangiamo oggi, semmai piangiamo il non averlo pianto e rubiamo un pezzo di dolore estraneo [...]". Esplode, in queste poche parole, l'essenza del romanzo: una scomparsa, un funerale mai celebrato, la scure della odiosa malattia che consegna un padre senza corpo, presente nelle macchie di muffa della casa. Ida, la protagonista di questo spaccato di vita familiare, è una donna di trentasei anni richiamata dalla madre nella sua abitazione di Messina. Per Ida, che vive e lavora a Roma, sposata con Pietro, è un ritorno in un passato mai del tutto cancellato, sempre in cima ai suoi pensieri, soggiogata al duro combattere per cercare di cancellare l'immagine di suo padre, uomo travolto e trafitto dalla depressione che, stanco del suo vivere, si trascina fuori dalla loro vita. I ricordi, le sensazioni, le amicizie di un tempo, il corpo assaporato dalle mani di un estraneo conosciuto al mare, avvolgono l'esistenza di Ida, giovane donna rimasta impigliata in una eterna adolescenza. I suoi tredici anni rappresentano uno spartiacque, un confine da percorrere per raggiungere il cambio di pelle, la maturazione di una scomparsa che si sprigiona negli odori e nelle voci catturati e custoditi in una scatola rossa. La vicinanza con la madre, una donna vittima dell'egoismo emotivo della figlia, la freddezza di Sara, sua migliore amica ai tempi del liceo, diventano lampi di luce che incoraggiano Ida ad abbandonare la muta dei ricordi. La comparsa di Nikos, un ragazzo di appena vent'anni, sarà per Ida il momento culminante che la spingerà a far entrare, per la prima ed ultima volta, l'odore del suo passato, quell'abbraccio caldo non più ricevuto. Copertina 5 (si percepisce la sospensione in un presente eterno); Storia 4; Stile 5.
Con questo romanzo Nadia Terranova svela una verità dolorosa: niente fa sentire più comodi e al sicuro delle proprie ossessioni, della sofferenza da cui ci lasciamo consumare. L’immersione di Ida nel dolore è un viaggio fatto di simboli che Terranova tratteggia con una lingua poetica e accuratissima, con pennellate di lirismo a tratti sorprendente, una rarità in un panorama letterario che spesso preferisce la linearità.
Ida inventa storie vere e ha un marito che le fa da padre. A Messina, dove è nata, ha lasciato il buco nero della sua esistenza, un padre uscito di casa e mai tornato, in una mattina in cui il tempo di Ida bambina si era fermato. Quando la madre la richiama in Sicilia per decidere cosa tenere e cosa buttare prima di lasciarsi alle spalle l’abitazione e i ricordi, Ida è costretta a fare i conti col proprio passato. Nascondendosi dal sole violento di una Sicilia vivida e sospesa si abbandona al dolore soffocante e rassicurante della memoria di un’esistenza spaccata a metà, tra l’idillio di un’infanzia ricostruita a posteriori e la fretta di dimenticare. Gliela ha imposta da una madre con cui lo scontro è il lessico familiare e la rimozione del senso di colpa è invece quello che le tiene insieme. Mentre due operai sono chiamati a riparare la casa, che cade a pezzi come la sua vita, nella scoperta che delle persone che conosceva conserva solo l’immagine che se ne era costruita e nello schiaffo del dolore degli altri, Ida si scopre accomodata e imbozzolata nel proprio, e intravede una strada per affrontare i propri fantasmi.
Un romanzo che tocca corde sensibili del lettore, che non cerca di metterlo comodo ma lo spinge – anche con disagio – a confrontarsi con una parte a tratti sgradevole di sé, le proprie fissazioni. Attraverso di esse però la scrittrice siciliana accompagna chi legge, assieme alla sua protagonista, nel drammatico necessario e a suo modo liberatorio ingresso nella vera maturità.
Recensione di Chiara Palumbo
A cura del Master in Editoria dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori
Quella mattina di ventitre anni prima mio padre aveva aperto gli occhi alle sei e sedici, le cifre erano rimaste sulla sveglia spenta con un colpo netto, seicentosedici, sei uno sei, e per giorni sul lavabo era rimasto il suo spazzolino blu, steso fuori dal bicchiere dove tenevamo tutti e tre i nostri, portandosi appresso una scia di dentifricio come bava di lumaca. Mia madre già era uscita, come spesso faceva, per regalarsi lunghe camminate all’alba, prima di andare al lavoro.
Ida scrive storie per la radio e abita a Roma con il marito Pietro. Ha con lui un rapporto particolare, che entrambi continuano a portare avanti, nonostante la stanchezza sessuale e, per certi versi, anche affettiva.
Il corpo aveva smesso di essere il luogo della comunicazione. La dolcezza si riversava nelle cerimonie quotidiane, nei dialoghi e nelle premure, e di giorno anche se litigavamo non ci facevamo mai veramente male: vivevamo all’ombra l’uno dell’altra vegliandoci con una cura che non avevo mai conosciuto; per qualche tempo dopo la fine del desiderio avevamo coltivato un nostro rituale nel darci comunque piacere, poi anche quello scambio era diventato inutilizzabile come un vecchio dizionario.
E Ida convive da ventitre anni con l’ossessione della scomparsa del padre Sebastiano, insegnante in una scuola per ricchi, un uomo che provava a riparare gli altri ma incapace di riparare sé stesso e che aveva contratto la tristezza, come una malattia.
Il ritorno a Messina per aiutare la madre a ristrutturare la casa di famiglia diventa occasione per una lunga riflessione sul significato di scomparsa e di morte. Il romanzo è tutto un lungo ricordo, fatto di capitoli lunghi intervallati da brevi intermezzi, i “notturni”, dove protagonisti sono i sogni di Ida.
Con la scomparsa del padre era iniziato un periodo di odio verso la felicità altrui, percepita come sopruso fisico, materiale, dove anche piccole opere edili (3 centimetri di dislivello di un balcone dei vicini) diventavano danni alla quotidianità del duo formato da lei e dalla madre. Felicità altrui come sopruso immateriale perché i vicini erano una famiglia felice, che giocava con i figli, cantava e pregava, mentre per la sua famiglia spezzata non poteva più esistere gioia.
L’inconsapevolezza degli altri era il nostro nemico, la quotidianità degli altri era il nostro nemico, i nomi degli altri erano i nostri nemici.
Elemento fondamentale nella storia, che ritorna sempre, a più riprese, è l’acqua sotto forma anche di sudore, di annegamento, esondazione perché è proprio con l’acqua che il padre o, meglio, il suo ricordo si manifesta. E come l’acqua fluisce, lungo le parole che circondano i ricordi. Riflettendo anche sul fatto che la vita è ein Augenblick, un momento, un battito di ciglia che da un momento all’altro può far cambiare tutto.
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