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Un capolavoro troppo sottovalutato.
È giusto rubare? Cos'è una famiglia? Basta partorire per essere madre? Sono domande capitali quelle che cercano una risposta nell'ultimo lavoro di Kore-eda. Una densità di concetti che respira nella leggerezza agrodolce di una visione cinematografica molto raffinata, quasi pittorica nella sua capacità di far stare tante personalità in quadri registicamente statici, con inquadrature fisse che sfruttano meravigliosamente la profondità di campo, ponendo su piani sfalsati e complementari i membri di una famiglia del tutto particolare. Una famiglia fatta di reticenze e verità amare dette col sorriso, di affetto e pasti umili consumati felicemente e avidamente, negli spazzi angusti di una bettola che emana però un calore umano unico. Nessuno ha un rapporto lineare con gli altri, tant'è che i nomi, mamma, papà, fratello, faticano a uscire dalle bocche caute di questi allegri derelitti. Quando arrivano, sanzionano in modo cristallino un percorso di sentimenti tutt'altro che scontato. Ogni cosa è da vagliare, ogni meccanismo deve superare le forche caudine della volontà individuale e di una quotidianità sempre pragmaticamente complessa. Ma la famiglia di splendidi disperati di Kore'eda non è solo fatta di parentele ideali, costruite di nuvole emozionali piuttosto che da rigagnoli di sangue. Il nucleo familiare di Osamu (che è capofamiglia solo nelle ipotesi) viaggia su binari morali del tutto differenti, perché la necessità del pane è più forte di qualsiasi schifiltosità moraleggiante. Il pane è condizione ineludibile, e quindi rubare va bene, perché “la merce esposta in un negozio non è di nessuno (almeno fino al fallimento)”, fare intravedere le tette va bene, se non c'è un altro lavoro migliore. Rapire una bambina alla sua famiglia non è così sbagliato, in questa visione delle cose, se i suoi genitori la maltrattavano. È per farla stare meglio, e poi “se non chiediamo il riscatto non è rapimento”. È un cercare il bene anche nell'inferno di ogni giorno.
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