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scheda di Bardi, M., L'Indice 1997, n. 7
Come già in "Ninna nanna del lupo" (Einaudi, 1995; cfr. "L'Indice", 1996, n. 2), il punto di vista scelto da Silvana Grasso per il suo racconto è quello della sera, la fine della giornata in cui le passioni e le sofferenze sembrano conoscere una pausa e le persone - pur fedeli a se stesse e quasi intrappolate in un carattere fisso, da maschera - s'illudono di comporre un bilancio. I vecchi che si ritrovano nel giardino della Villa Comunale Regina Margherita sono presentati in modo impietoso nella loro corporeità oltraggiata, nella loro "babberia" latente o palese, proprio nell'urgenza di ritrovare il filo e il senso del loro oscuro destino.
Il racconto di un tempo precedente, che si vorrebbe pieno e complesso, si dipana da questo triste spettacolo di decadenza senile, descritto con una lingua che scarnifica e scruta, con violenza ed eleganza insieme: attraverso dialettalismi, coniazioni ardite, esiti fonici tipicamente regionali prendono vita pagine che non temono il confronto con quelle dei grandi siciliani contemporanei, da Bufalino a Consolo. E qui, nella ricostruzione di vite al termine, l'autrice sferra il suo attacco a quella società che costringe al silenzio donne come la Mosca Centonze del primo romanzo e stabilisce ruoli rigidi fin dal tempo innocente della nascita: il direttore didattico Cornelio Azzarello ha la disgrazia di veder nascere il suo primogenito Sasà con due minuti di ritardo rispetto al figlio maschio del fratello Antonino; il piccolo, poi, si presenta come "una sagoma, una sembiante scura pelosigna accravunàta" come una "macchia di mostarda", "niricume di cèusa", "budelletto attufato impeciato arizzicanàto". Una tragedia, insomma, per un padre.
Ma alla mente geniale del direttore didattico si affaccia ben presto la soluzione: sarà il "cannolicchio" del suo bambino, il cosiddetto "capitale", "smisurato straordinario disumano gigantesco", a riscattare il neonato dalla condizione di secondo nipote di peso scarso e di aspetto miserabile. E il "capitale" diviene la cifra e la condanna del personaggio, costretto a nascondere i suoi attributi - del tutto normali - per non smentire la leggenda diffusa dal padre. La vita di Sasà, nonostante gli sforzi dell'intera famiglia, si svolge nel segno di una perfetta infelicità: gli studi di filosofia a Padova ne determinano i tratti da intellettuale allampanato, con esiti d'irresistibile comicità sia nella tensione verso un suicidio astratto e sempre mancato sia nei discorsi strampalati in cui affiorano le memorie dei filosofi e dei poeti.
Ma ancor meglio lo definisce l'amore per la friulana Ada, la cui mancata illibatezza crea un insanabile dissidio fra la pretesa liberalità continentale di Sasà e il pregiudizio culturale che naturalmente finisce per prevalere, sempre attraverso canali indiretti e sotterranei, nella finzione permanente che caratterizza anche i rapporti più stretti. Il sarcasmo dell'autrice raggiunge come una lama i cuori chiusi dei personaggi, e si arresta solo di fronte allo spettacolo di Sasà anziano e vedovo, rivolto alle cure tenere e assidue di quel cugino Rorò nato due minuti prima di lui, così trionfalmente "lardicuso nelle cosce nel petto nelle braccia" da neonato e ora costretto da un ictus sulla sedia a rotelle: il romanzo si chiude sulla speranza dei due vecchi, di raggiungere infine, questa volta contemporaneamente, una morte conciliante e ragionevole, dopo tanto spreco e tanta follia.
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