"Lo scopo di questo libro è cercare di fornire un contesto, estetico e narrativo, a una serie di album notevoli e a quella che potrebbe essere definita una sorta di età dell'oro del rock inglese", scrive Clinton Heylin alla fine del suo All the Madmen. L'autore, inglese classe 1960, è noto soprattutto come autore di alcune imprescindibili monografie su Bob Dylan (anche se in italiano è più facile reperire altri suoi titoli, su Bruce Springsteen e Van Morrison ad esempio). In questo ultimo libro, pubblicato dalla meritoria collana "Cult Music" di Odoya, Heylin si dedica principalmente alle "vite parallele" di una serie di protagonisti del rock inglese degli anni sessanta: Syd Barrett (e i Pink Floyd), David Bowie, Nick Drake, i Kinks, gli Who. Il contesto "estetico e narrativo" sopra citato è quello offerto dal rapporto, più o meno esplicito, che tuttii musicisti citati avrebbero intrattenuto con una qualche forma di "malattia mentale", riconducibile ora a traumi infantili, ora all'abuso di acidi e altre droghe, ora all'azione combinata degli uni e degli altri. All the Madmen (il titolo è ripreso da una canzone di Bowie) percorre così il decennio andando a cercare, nella biografia dei musicisti, nelle più o meno estemporanee dichiarazioni alla stampa, nei testi delle canzoni, indizi per la tesi che costituisce l'impianto del libro. Molto acutamente, Heylin non limita la fertilità dei rapporti fra arte e follia agli anni sessanta del rock, ma fa notare come questa fascinazione sia una costante della società britannica, tracciandone anche un rapido excursus nel capitolo finale, dedicato a "quattrocento anni di 'male inglese'". Caratteri tipici del rock inglese sono così "nazionalizzati" e calati in un contesto che trascende il genere, e addirittura la musica tutta. La tesi è di grande fascino, e certo non priva di qualche verità. Non è tuttavia necessario scomodare la teoria della critica letteraria per affermare come sia l'attenzione riservata a certi caratteri piuttosto che ad altri a provocarne, inevitabilmente, la comparsa: così è per i pure innegabili "problemi mentali" di alcuni dei protagonisti di questo libro. Quando rappresentano un semplice appiglio narrativo per ricostruire relazioni e ispirazioni reciproche (cosa che Heylin mostra di saper fare magistralmente), la struttura tiene, e le pagine scorrono piacevoli fra aneddoti e brillantezza critica. Quando ci si spinge oltre, ad esempio cercando di ricondurre comportamenti "deviati" ai modelli di pazzia formulati dall'antipsichiatra Ronald David Laing, la materia scappa di mano. Soprattutto perché tutto l'impianto costruito da Heylin non sembra voler dar conto in alcun modo di un elemento non certo marginale nella definizione di una musica "psichedelica" o postpsichedelica, o dello stesso "rock inglese": e cioè la musica stessa. Per esempio, i rapporti fra la presunta malattia mentale (o gli stati mentali alterati) e la nascita di un sound "psichedelico", o "acido", non sono quasi per nulla indagati. Molte pagine di All the Madmen, seppure con stile ispirato e fresco, finiscono così per riproporre il logoro cliché del genio artistico maledetto (e ora pure pazzo), lasciando sullo sfondo il suono, la pratica musicale, lo studio di registrazione, la disponibilità di nuove tecnologie, che certo plasmarono l'idea di rock inglese almeno tanto quanto i maltrattamenti subiti da bambino da Pete Townshend. Jacopo Tomatis
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